di Loris Campetti
Ho letto con interesse il resoconto del giornalista Valerio Lo Muzio da Milano Marittima, in cui racconta le sue faticate riprese con la telecamera della performance del figliolo di Salvini sulla moto d’acqua della Polizia di Stato. Riprese fatte nelle peggiori condizioni tra le minacce dei protettori del ministro dell’Interno, poliziotti o gorilla, chissà, si sono rifiutati di dare le proprie generalità. Le hanno però pretese da Lo Muzio, e una volta fotografato il suo documento, ecco la minaccia: “Adesso sappiamo dove abiti”.
Era sicuramente un poliziotto, invece, il guidatore della moto. Ho letto anche il modo arrogante con cui Salvini ha messo a tacere e ingiuriato il giornalista che nel corso di una successiva conferenza stampa gli chiedeva ragione dell’imposto divieto di testimoniare la realtà con una telecamera: “Vada in spiaggia a riprendere i bambini, visto che le piacciono tanto”. Salvini l’ha messo a tacere e non ha risposto. Poi ho letto il sacrosanto comunicato del Cdr, il comitato di redazione di Repubblica, giustamente indignato, che, in difesa del collega denuncia la “deriva liberticida alla quale non intendiamo rassegnarci e che i giornalisti di Repubblica combatteranno sempre”.
Mentre leggevo ricostruzione e denuncia, mi è venuto in mente un vecchio episodio capitato tanti anni fa a Rimini dove seguivo per il manifesto il Meeting dell’amicizia di Comunione e liberazione. Quella mattina d’agosto era in programma un incontro con la stampa di Raoul Gardini, imperatore della chimica italiana, morto suicida oltre un quarto di secolo fa nel giorno in cui avrebbe dovuto presentarsi davanti al pool milanese di Mani pulite per rispondere in merito alla cosiddetta “madre di tutte le tangenti”.
Quando entrò nel salone del Meeting stracolmo di giornalisti, Gardini esordì così: “Se in sala c’è un giornalista del manifesto lo prego di uscire. Non sono disposto a parlare alla presenza di un corrispondente di quella testata”. Ce l’aveva con noi per un articolo su di lui firmato da un collega e compagno, un articolo che evidentemente non gli era piaciuto.
A quel punto mi avviai verso l’uscita, ma venni bloccato da una reazione imprevista: un giornalista agguantò da una valletta di Cl il microfono e urlò: “A nome della Federazione della stampa dichiaro inaccettabile tale discriminazione e invito tutti i colleghi a lasciare la sala. Torneremo solo insieme al collega del manifesto”. Come per miracolo tutti i giornalisti si avviarono all’uscita. La situazione si sbloccò e la conferenza stampa ebbe finalmente inizio solo quando Gardini fece un passo indietro annunciando pubblicamente la rinuncia alla sua pregiudiziale.
Un quarto di secolo fa, di fronte all’arroganza del potere i giornalisti si comportarono così. Pensate che bello se di fronte agli insulti di Salvini a Lo Muzio tutti i corrispondenti avessero lasciato la conferenza stampa, o meglio ancora avessero, uno dopo l’altro, posto al ministro le stesse domande sull’uso privato, nonché paterno, della Polizia di Stato. Non l’hanno fatto. Forse perché i tempi sono cambiati e i giornalisti sono meno liberi, più precari, più ricattabili. Forse perché lo spirito dei nuovi tempi prevede la guerra tra poveri e nessuno voleva rinunciare ad appuntare e poi rivendere le parole di Salvini che fa sempre notizia e occupa giornali e telegiornali e social. Forse perché più importante della dignità e della deontologia è la registrazione della quotidiana rissa tra Lega e M5S.
Certo, Salvini è un problema per la fragile democrazia nel paese del “Fascismo eterno”, per richiamare il titolo di un bel libro di Umberto Eco. Ma non è un problema anche l’ignavia degli operatori dei media?