Ridare senso alle parole tradite

di Aldo Tortorella /
18 Dicembre 2022 /

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Ora bisogna guardare avanti, si dice a sinistra. Giusto. Ma, per farlo, bisogna intendere bene le ragioni dell’aspra sconfitta, del premio alla formazione delle destre più retrive, dell’inizio di una fase che tenderà a oscurare le motivazioni e le finalità originarie della Repubblica. Se ne vogliono recidere le radici antifasciste con l’avvento al governo di chi non ha mai riconosciuto che quell’ottobre di cento anni fa rappresentò l’inizio della tirannide e della rovina materiale e morale dell’Italia.
Negazione della libertà, razzismo, intere generazioni mandate a uccidere e a morire in guerre d’aggressione, arretratezza prima e poi distruzione del paese. Antifascismo vuol dire impegno per la libertà, per la democrazia, per la giustizia sociale, per la pace – come è scritto in Costituzione.


Che si sia arrivati in Italia a un governo di negatori dell’antifascismo, di nostalgici o di finti agnostici di un passato infame, indica debolezze ed errori di fondo dell’insieme delle forze democratiche e, in esse, della sinistra.
È troppo facile sparare sui perdenti e spesso è solo un alibi per la ipocrisia di molti che, ora, danno lezione al Pd e al suo segretario dimissionario, come fa la parte maggiore della stampa moderata, ma, ieri, approvavano e incoraggiavano le scelte suicide con cui il segretario e il gruppo dirigente di quel partito hanno affrontato la campagna elettorale.
Quella che è stata chiamata la fatwa contro i 5 Stelle parve un gesto encomiabile. E solo adesso ci si ricorda che «l’agenda Draghi» era solo «un elenco». Gli errori recenti di una tattica che ha voluto essere “di principio”, ma è solo stata miope, sono evidenti. Ma non è recente la mancata autocritica della nazione per la tragedia fascista.


Si volle fingere che il popolo italiano fosse stato tutto antifascista perché c’era stata la Resistenza: ma il male era stato ben più generale e profondo (era vera ma inascoltata la definizione di Gobetti: il fascismo come «autobiografia della nazione»).
E non è cosa recente l’allontanamento dalla sinistra di una gran parte del popolo che, sorreggendo la propria parte, sorresse anche la democrazia costituzionale italiana. Perciò l’ipocrisia diviene impostura quando si finge di dimenticare che la sistematica separazione della sinistra maggioritaria dai penultimi – cioè i lavoratori stabili o precari o finti autonomi – e dagli ultimi – cioè i più poveri e gli emarginati – è stato un processo tenacemente perseguito anche da supposti ambienti progressisti (si pensi alla parabola del quotidiano La Repubblica).
Il “pacchetto Treu”, che aprì la strada al dilagare del precariato ai tempi del governo Prodi, fu considerato salvifico. E venne osannato il presidente del Consiglio e segretario del Pd, il “rottamatore” che attuò quel jobs act che smontava la giusta causa nei licenziamenti (e, tra l’altro, promosse l’attuale legge elettorale sciagurata e incostituzionale).
Per dire solo due esempi di un orientamento politico. Furono pubblicizzati come i più moderni e illuminati pensatori i profeti della fine della lotta di classe, anche se la vittoria del modello capitalistico («nella lotta di classe», appunto, come disse un super miliardario sincero) non significava la fine del contrasto di interessi e di valori.


L’unica politica possibile parve quella del liberismo. I politici al governo, per godere di prestigio e considerazione, avevano da essere parte ed espressione delle classi economicamente favorite e dominanti, quale che fosse la loro denominazione partitica. (Si è levata postuma indignazione perché Schroeder si era fatto magnate russo e vi fu scandalo per gli affaracci di Blair sistematosi in Medio Oriente: ma questi casi più noti furono e sono solo il riflesso sgargiante di un modo di essere e di pensare).


I valori cui si diceva – e si dice – di ispirarsi dovevano andare – e vanno – a senso unico: se li offende il più debole è una vergogna, se li offende il più forte è una necessità da rispettare o, meglio, da ammirare. Sta qui il primo motivo della decadenza della sinistra e con essa del supporto essenziale di un modello democratico come quello costituzionale italiano “fondato sul lavoro”.
Il primo motivo del declino della sinistra è la rinuncia a dire la verità sul mondo in cui viviamo e a valutarla secondo un proprio punto di vista. So bene che una discussione su quel che sia in astratto la verità può essere, ed è, senza fine. Ma parlo dell’esame dello stato di fatto accertabile in materia di rapporti umani e del giudizio sopra di essi.


La sinistra politica nasce, ancor prima di dirsi socialista, per una insoddisfazione, e dunque una critica, dello stato di fatto di questi rapporti sul piano economico e su quello dei diritti. Nasce, cioè, da una rivolta morale contro l’ingiustizia. Facendosi socialista e poi marxiana si definì come critica del capitalismo: ma fu presto chiaro che anche questa espressione andava specificata.
Il che è ancora più vero e necessario oggi quando l’antico conflitto tra riforme e rivoluzione si è svuotato di senso perché l’una e l’altra parola – suscitatrici, una volta, di dottrine e passioni – si sono venute logorando alla concreta prova del loro significato. Il che non vuol dire che non lo ebbero. La rivoluzione sovietica significò la presa di coscienza di se stessi per milioni di sfruttati nel mondo intero. E, di conseguenza, stimolò anche le riforme sociali, sostenute dai riformisti, utili alle classi subalterne in vasta parte delle società capitalistiche.


Ma l’una, la idea di rivoluzione, subì, attuandosi, la sorte di trasformarsi in credenze dogmatiche, e dunque tiranniche, perdendo ogni contenuto critico, libertario e riformatore. E l’altra parola, l’idea delle riforme, si venne soddisfacendo della propria – meritevole – capacità di salvaguardia liberaldemocratica e di relativo appagamento per i lavoratori perdendo per strada la tendenza trasformatrice. (È superfluo ricordare che la stessa idea del welfare state nacque originariamente dalla proposta di un conservatore illuminato ai fini del superamento o dell’attenuazione del conflitto sociale).


Anzi l’idea di riforma si è venuta trasformando nel proprio contrario: riforme per cancellare le riforme sociali. È stato un processo quasi fatale. L’abbandono della critica del modello sociale dominante non è stato solo il risultato del desiderio di poter gareggiare per il governo, ma della convinzione che non esistono nella realtà modelli alternativi se non a chiacchiere.


Ma se si rinuncia a denunciare le contraddizioni insanabili, le colpe e i mali dell’egemonia capitalistica avanzeranno altre spiegazioni. Quelle della destra: il nazionalismo, il razzismo, al cui sbocco c’è la guerra. Il regime di Putin si chiama capitalismo selvaggio. La sua colpa: nazionalismo cieco e violento. Il cosiddetto populismo di massa nasce dalla fine della speranza di cambiamento nella giustizia sociale: se ci dite che non vi sono altre proposte da quelle della condanna alla nostra miseria, rivendicheremo soldi e diritti da chiunque ce li promette qui ed ora. Se ci si appaga della società cosi com’è, carica di ingiustizie e di violenza, non c’è sinistra riconoscibile.


Tuttavia il dirsi critici del capitalismo da parte di chi si dichiara “veramente” di sinistra non produce né emozione né consenso se non si riempie di significati e di forme di azione relative al mondo uscito dalla vittoria globale del modello capitalistico e alle sue ingiustizie vecchie e nuove. È una antica questione. Ieri la sinistra nata nell’arretratezza stentò a capire le trasformazioni indotte dal consumismo e dai nuovi strumenti della informazione e formazione di massa come la televisione.
Oggi la sinistra, moderata o no che sia, fatica ad intendere la mutazione determinata nei sistemi produttivi e nelle menti dalla rivoluzione elettronica, ora digitale che ha dato vita a quello che è stato chiamato “il capitalismo delle piattaforme”.


Fu giusto proclamare la democrazia come valore universale: ma si sarebbe dovuto lottare per crearne le precondizioni: quelle formative (una scuola di qualità) e quelle informative (un sistema dei media equilibrato). Senza quelle precondizioni, per cui non si lottò abbastanza, si sarebbe arrivati dove siamo: la postdemocrazia e la tendenza a forme neo-autoritarie nei paesi più sviluppati.
È certo difficile capire bene come si possa agire ora, al tempo del digitale, per riconquistare il popolo perduto soprattutto se si ignorano le lezioni del passato o se si teme la cultura critica attuale, che non è solo accademica e libresca ma è divenuta di massa nell’azione ecologista e in quella femminista. E il fatto che tocchi alla destra promuovere in Italia per la prima volta una donna – seppur maschilista – alla guida del governo (come è successo, assai prima, alla destra inglese) dovrebbe far riflettere le sinistre sulla propria incapacità di vedere quanto sia cambiato il rapporto tra i sessi e di fare proprio il moto di libertà aperto dalla rivoluzione femminile battendo le proprie interne resistenze maschili.


Il ritardo non è minore per ciò che riguarda il capitalismo delle piattaforme. La cultura progressista della materia chiede, con scarso ascolto, forme di controllo pubblico sul possesso privatistico dei dati personali, e cioè del profilo mentale, di chiunque adoperi un aggeggio digitale, un possesso che favorisce la possibilità di controllo sulle menti. Ognuna delle rivendicazioni pensate per arginare il potere del nuovo capitalismo (iperbolico: 44 miliardi di dollari per comprarsi Twitter) avrebbe bisogno di un possente sostegno di opinione in una realtà in cui permanenze subculturali o pregiudizi ancestrali sono diffusi tra grandi masse di popolo e convivono con gli strepitosi avanzamenti tecnologici, anche usati per ribadire pregiudizi e subculture. In una situazione come questa bisognerebbe, credo, rendersi veramente esperti delle possibilità che offre la rete al peggio ma anche al meglio.
Contemporaneamente, mi pare, sarebbe ugualmente necessario rivalutare e praticare la comprensione, senza odiose sprezzature, delle paure e delle mentalità diffuse per intendere la possibilità di superarle. Il che implicherebbe di dare la prova concreta della vicinanza ai bisogni degli ultimi e dei penultimi.


La destra raccoglie, esprime e stimola pregiudizi e subculture. La sinistra avrebbe un compito opposto e per questo si parlò, in tempi antichi, di una funzione pedagogica di un partito popolare come fu il Pci o, prima, del partito socialista. Quel compito fu sostenuto da convincimenti profondi che animavano un attivismo diffuso. Non tutti quei convincimenti erano sbagliati e perciò l’abiura fu un danno. Serve il recupero di un’autentica volontà morale.


L’esempio dell’attuale papa, tanto avversato nel suo stesso mondo, lo dimostra. Egli crede nel Vangelo e lo predica, tra l’ostilità di chi, tra i suoi, il Vangelo lo dimentica. Una etica laica può essere non meno esigente: a condizione di guardare criticamente la realtà. Non servono strumentali recuperi nominali, come si sa e come si è visto, così come è stato illusorio il pensare di rinascere cambiando continuamente nomi ed etichetta.


Il Pd sconfitto è di nuovo in queste ambasce. Il suo dibattito interno interessa anche chi ne è estraneo e critico (come chi scrive questo articolo), sia perché è il maggiore partito di opposizione, sia perché entro di esso e nei suoi alleati elettorali vi sono permanenze “di sinistra” (parola essa stessa da ridefinire) più o meno esplicite, e non solo tra gli elettori.
A me pare che sarebbe un errore capitale continuare a pensare che la critica del mondo com’è porti fatalmente alla rinuncia a intervenire praticamente nella soluzione dei problemi dei lavoratori e del paese. È vero il contrario. Innanzitutto se si nega la cultura critica si rinuncia a capire la realtà, compresa la tragedia della guerra che stiamo vivendo.
Soprattutto, denunciare le contraddizioni di un modello fondato su premesse false dà maggiore forza e capacità per intervenire concretamente. Non è vero che non esistano soluzioni alternative. Continuare a studiarle e a cercarle porta a proposte immediate e fattibili. E serve a ridare un senso a parole logorate da un cattivo uso. La parola “sinistra”. La parola “socialismo”.

Questo articolo è stato pubblicato su Critica Marxista (n. 5, 2022)

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