Keynes fece rinascere l'economia perché la restituì all'umanesimo

28 Giugno 2019 /

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di Michele Salvati
È nelle librerie un eccezionale Meridiano Mondadori. Eccezionale perché sono pochi i Meridiani non dedicati a grandi autori della letteratura e della filosofia. Ed eccezionale perché l’autore a cui è dedicato è una figura straordinaria, il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes (1883-1946). Il Meridiano comprende una nuova traduzione della sua opera principale, La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta del 1936 e altri 28 scritti, larga parte dei quali mai tradotti prima in italiano, fra cui la Lettera aperta al presidente Roosevelt a pochi mesi dalla sua elezione, uno scritto di singolare attualità come L’Arte e lo Stato e il saggio su Come pagare il costo della guerra del 1940, nel quale Keynes anticipa l’idea delle politiche dei redditi. Traduzioni, introduzione e cronologia della vita di Keynes sono di Giorgio La Malfa, mentre il corposissimo apparato di note è di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese.
C’è una ragione che spiega l’inclusione di questo lavoro nel disegno culturale che ispira i Meridiani. Keynes non è solo un economista, ma è anche colui che ha ricondotto questa disciplina nell’ambito delle scienze sociali e morali. Che ha rovesciato, alle soglie della Seconda guerra mondiale, il predominio di un indirizzo dominante nei cinquant’anni precedenti: una concezione dell’economia che aveva cercato di assimilarla alle «vere scienze», alle scienze della natura. E l’aveva ridotta ad una dismal science, ad una scienza arida e triste, al di fuori delle possibilità di comprensione e di attrazione per coloro che volevano, dagli economisti, un aiuto a capire e migliorare le società in cui vivono.
Keynes vinse la battaglia, e anche alla sua vittoria teorica è dovuto il mondo di ieri, i trent’anni di benessere diffuso di cui i Paesi capitalistici e liberali avanzati hanno goduto tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso. Ma non vinse la guerra e la reazione degli economisti tradizionali non si fece attendere per molto, anche con buone ragioni. Sicché oggi la disciplina versa in uno stato di frammentazione. L’età della disgregazione (Laterza) titola Alessandro Roncaglia la sua recente storia del pensiero economico contemporaneo, nei settant’anni che sono trascorsi dalla morte di Keynes: neo e post-keynesiani, neoclassici, neoliberisti, monetaristi, istituzionalisti, neomarxisti, evoluzionisti, economisti sperimentali e comportamentali, e molte altre scuole e sette. Non sempre è vero, anzi lo è di rado, ciò che diceva Mao Zedong: «La confusione è grande sotto il cielo. La situazione è eccellente». Ma questa volta lo è. E questa benefica confusione è soprattutto merito di Keynes (non solo suo, bisognerebbe aggiungere anche Piero Sraffa): è dovuta alla rottura del vaso di Pandora del paradigma dominante. Dunque alla riconduzione dell’economia alla via maestra delle scienze morali e sociali e di conseguenza ai dissensi e ai conflitti di opinione che inevitabilmente le attraversano.
Per far capire anche al pubblico colto che persona fosse Keynes, quali le sue passioni e aspirazioni profonde, La Malfa ha utilizzato in modo eccellente le centodieci pagine del saggio introduttivo e le novanta della Cronologia, pienamente comprensibili anche da un lettore informato, ma con poche nozioni di economia: la Cronologia è in realtà un illuminante saggio biografico. E anche nel resto del Meridiano vi sono scritti e passaggi dai quali questo lettore può farsi un’idea delle idee politiche, della grandezza e dell’umanità di Keynes, a partire dall’ultimo capitolo della Teoria generale. Illuminazioni e sorprese sono poi abbondanti nei testi e nelle note.
Quali le lezioni di Keynes oggi, a più di settant’anni dalla sua morte? Ragioni di scrupolo filologico, di attinenza al tema affrontato e ai suoi limiti, consigliano La Malfa di non affrontare un problema in cui sarebbero prevalse interpretazioni soggettive e non documentabili: interpretazioni di cui La Malfa non era stato avaro nel suo piccolo libro Feltrinelli, John Maynard Keynes, del 2015. La situazione odierna, in Italia, in Europa, nel mondo, è profondamente diversa da quella sulla quale Keynes ebbe a riflettere, ai tempi della Grande guerra e dell’infausto trattato di pace, della depressione degli anni Trenta, dell’assetto che le economie capitalistiche liberali e democratiche si diedero a Bretton Woods nel 1944. Conflitti interimperialistici rovinosi come quelli degli anni Trenta del secolo scorso non minacciano, per ora, l’ordine internazionale, ma gli Stati Uniti non ne sono più l’egemone incontrastato. Nonostante la grande crescita del reddito, la disoccupazione e la Povertà nell’abbondanza – è il titolo di uno dei saggi del Meridiano – ancora incrinano la coesione sociale di molti Paesi. E siamo nel mezzo di una rivoluzione tecnologica così veloce e profonda che non riusciamo a capire come sarà organizzata la società del prossimo futuro, e se riuscirà a dar lavoro, dignità e reddito ai suoi cittadini.
Non sappiamo come Keynes avrebbe risposto a queste sfide. Ma sappiamo perfettamente come le avrebbe affrontate. L’avrebbe fatto convinto che un capitalismo temperato da interventi pubblici necessari, nel contesto di un ordine politico liberaldemocratico, può trovare la migliore soluzione possibile ai problemi della convivenza umana. In economia non ci sono leggi ferree che si impongono con la necessità delle leggi naturali e una «discrezione intelligente» può sempre prevalere su «regole stupide». Se qualcuno trova un’assonanza con quanto una volta disse Romano Prodi, questa non è casuale: Prodi si riferiva a Keynes. Una discrezione intelligente, orientata al bene comune, esige però classi dirigenti capaci di esercitarla. E questo è un non piccolo problema.
Questo articolo è stato pubblicato dal Corriere.it l’11 aprile 2019

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