Keynes, il costo morale del rischio
- / 24 Giugno 2019
- / Economia

di Massimo De Carolis
All’indomani di una crisi economica globale, tuttora lontana dall’aver esaurito la sua spinta destabilizzante, non puรฒ sorprendere che un’opera come la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta torni oggi alla ribalta, accendendo di nuovo l’interesse non solo degli economisti di professione, ma di chiunque si sforzi di capire cosa stia succedendo nel mondo. Dopotutto, il trattato di Keynes era nato a sua volta sull’onda della grande depressione, quando il dissesto dell’economia globale e l’avanzata dei totalitarismi avevano reso non solo legittimo, ma addirittura urgente un programma di completo rivoluzionamento delle teorie economiche e delle politiche di stampo liberale.
Per Keynes erano almeno due i mitologemi da cui il pensiero economico andava rapidamente affrancato: da un lato, la fiducia cieca nella ยซmano invisibileยป del mercato e nella sua supposta capacitร di autoregolazione; dall’altro la certezza dogmatica che non potesse esistere una disoccupazione del tutto involontaria, perchรฉ il sistema tenderebbe in ogni caso a stabilizzarsi al livello ottimale, nel quale tutte le risorse sono utilizzate al meglio. In quegli anni di crisi, questi due pregiudizi erano platealmente smentiti dai fatti. Entrambi erano perรฒ talmente radicati nell’edificio dell’economia di mercato, che solo un ripensamento sistematico dell’intero castello, compresa la sua ยซcittadellaยป centrale, poteva consentire di sfatarli senza dover rinunciare a ogni forma plausibile di razionalitร economica e senza rischiare, cosรฌ, di spingere il liberalismo verso la bancarotta.
Rimosso negli anni ’80
Sotto il profilo teorico, la Teoria generale fu l’apice di un percorso lungo e articolato, di cui il Meridiano Mondadori appena uscito (Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese, pp. 1328, euro 80,00) offre un panorama completo, grazie alla preziosa ricostruzione introduttiva di Giorgio La Malfa e all’ampio corredo di testi brevi, che precedono e seguono l’opera maggiore, molti dei quali inediti in lingua italiana. Sotto il profilo invece strettamente pratico, i frutti della rivoluzione keynesiana non maturarono che nel Dopoguerra, nei trent’anni ยซgloriosiยป durante i quali, in tutto l’Occidente, i parametri economici registrarono un balzo in avanti senza precedenti.
Il ยซkeynesismoยป diventรฒ, a quel punto, il modello teorico dominante nelle maggiori istituzioni accademiche e governative, anche se in una versione talmente piegata alle esigenze di programmazione economica e cosรฌ fiduciosa (specie nella versione americana) nell’efficacia dei formalismi matematici e nella piena calcolabilitร dei rischi, da assomigliare sempre meno alla disincantata ragionevolezza del maestro. Sta di fatto che, quando l’ordine globale cominciรฒ a mostrare crepe irreparabili, il keynesismo di scuola si dimostrรฒ incapace di affrontarle, aprendo le porte alla controrivoluzione neoliberale.
All’inizio degli anni Ottanta, la lezione di Keynes diventรฒ cosรฌ l’oggetto di una vera e propria rimozione. All’insegna di una bandiera ideologica tanto rozza quanto efficace – ยซpiรน mercato e meno Statoยป – i vecchi miti del passato tornarono ad aggirarsi sulla terra come zombie: il mercato che si regola da solo, l’aggressivitร competitiva come unico lievito della crescita, l’impossibilitร ยซlogicaยป di una disoccupazione del tutto involontaria e di un potere monopolistico in grado di manipolare stabilmente la dinamica concorrenziale. Il finale, come รจ d’obbligo in un film dell’orrore, fu il bagno di sangue degli ultimi dieci anni.
Ora che la partita riprende a ruoli invertiti – con le tecniche neoliberali di governo dell’economia sul banco degli imputati – l’ingenuitร maggiore sarebbe accontentarsi di capovolgere lo schema, invocando un ยซpiรน Stato e meno mercatoยป che dovrebbe traghettarci al di lร dell’anarchia liberista. Ci sono almeno due ragioni per cui una simile ingenuitร risulterebbe politicamente pericolosa, oltre che incompatibile con la lezione di Keynes. In primo luogo, perchรฉ verrebbe a riproporsi intatta la peggiore illusione del neoliberalismo: quella che, appunto, il mercato e lo Stato, il privato e il pubblico, l’economia e la politica non siano, come insegna l’esperienza, due polaritร sistematicamente intrecciate, ma due sfere del tutto indipendenti, perfettamente separabili come le due metร di un’anguria, purchรฉ si eliminino le proverbiali revolving door che tutti aborrono a parole e che tutti usano perรฒ, di fatto, con la massima disinvoltura.
In secondo luogo, un modello cosรฌ elementare di ยซgoverno politicoยป dell’economia finirebbe col dover rimuovere a sua volta l’unica obiezione veramente radicale che il neoliberalismo abbia indirizzato a ogni genere di ยซpianificazioneยป: quella che, in economia, non puรฒ esistere un punto di vista ยซsovranoยป, capace di assegnare in anticipo il giusto valore a ogni impresa e a ogni prestazione produttiva, semplicemente perchรฉ il valore di mercato รจ costruito sul futuro, in un gioco di aspettative e preferenze incrociate, incerte e soggettive, su cui ciascun singolo agente (con o senza l’avallo di Stato) puรฒ solo speculare, possibilmente a proprio rischio e pericolo.
ร bene sottolineare che, su questo specifico punto, la visione di Keynes non รจ molto lontana da quella dei ยซpadri nobiliยป del neoliberalismo. In un articolo del 1937 che riassume la General Theory per rispondere ai suoi diversi critici (e che รจ giustamente incluso nel Meridiano) Keynes ripropone una distinzione fra il rischio e l’incertezza radicale, che era stata tracciata quasi negli stessi termini da Frank Knight piรน di quindici anni prima.
Impossibili previsioni
Il rischio, come nel gioco d’azzardo, รจ sempre solo ยซmoderatamente incertoยป perchรฉ riconducibile a un calcolo delle probabilitร e quindi padroneggiabile, in linea di principio, con gli strumenti della razionalitร matematica. L’incertezza radicale รจ propria invece di eventi singolari, come la probabilitร di un terremoto, di una guerra o di un mutamento dei prezzi del rame in un futuro remoto e nebuloso. In casi simili, non c’รจ base oggettiva per alcun genere di previsione: we simply do not know. Al mercato non resta altra via che far convergere le aspettative collettive su un sistema di valori doppiamente convenzionale: in primo luogo, perchรฉ รจ costruito sull’inverosimile finzione che il domani resti uguale all’oggi; e, in secondo luogo, perchรฉ, in mancanza di certezze solide, ciascuno si affiderร alla convenzione di mercato semplicemente perchรฉ lo fanno tutti gli altri, il che assicura quanto meno la certezza di poter trovare un acquirente, al medesimo prezzo, qualora si volesse tornare sui propri passi.
In altri termini, la convenzione di mercato – purchรฉ adeguatamente condivisa – consente di rischiarare gradualmente la scatola nera del futuro remoto, segmentandolo in ยซuna successione di brevi periodi piรน o meno numerosiยป. All’interno di ciascun segmento, si potrร ragionevolmente contare sul fatto che la convenzione non verrร meno di punto in bianco, ottenendo cosรฌ la garanzia di poter eventualmente rivedere le proprie valutazioni, prima che sia troppo tardi: ยซin questo modo investimenti che per la collettivitร sono โfissi’ divengono โliquidi’ per il singoloยป.
Una convenzionalitร tanto profonda dei valori di mercato รจ chiaramente agli antipodi di qualsiasi determinismo: di qui la fermezza con cui Keynes respinge ogni tentativo di equiparare l’economia a una scienza naturale, ribadendo che si tratta invece di una scienza ยซmoraleยป (in Germania si sarebbe detto una Geisteswissenschaft). Un disincanto inaccettabile per le teorie mainstream. E, per di piรน, un’argomentazione molto simile a quella con cui Ludwig von Mises taglia le gambe a ogni possibile pianificazione ยซdall’altoยป, per sancire l’intangibilitร dell’ordine spontaneo del mercato. Come รจ possibile, allora, che da premesse tanto simili Keynes tragga conclusioni esattamente opposte, giungendo in fondo a intuire il tramonto del neoliberalismo prima ancora che ne sia iniziata l’alba?
Una chiave puรฒ essere offerta da una distinzione concettuale che ha un peso decisivo nel Capitolo XII della Teoria generale, e che non ha invece alcun corrispettivo nelle concezioni neoliberali: la distinzione tra impresa e speculazione. Un’impresa vera e propria ha sempre il compito di sfidare l’incertezza radicale e, dunque, di ยซsconfiggere le forze oscure del tempo e dell’ignoranza che avviluppano il nostro futuroยป. Questo รจ vero di un’attivitร imprenditoriale in senso stretto ma anche, in fondo, di una performance creativa e, a maggior ragione, di un investimento finanziario di lunga durata. Si tratta, in ogni caso, di puntare su un progetto, una visione, un sogno, e di creare le condizioni perchรฉ entri nel novero delle possibilitร reali.
Distanza dalle illusioni neoliberali
La convenzione di mercato, come abbiamo visto, gioca un ruolo essenziale in questo transito dal possibile al reale, perchรฉ canalizza l’investimento collettivo, mettendolo al servizio della realizzazione dell’impresa. A decidere le sorti di un’impresa, in tutto o in parte, sarร dunque la convenzione, vale a dire il processo mimetico per cui ciascun agente, in condizioni di incertezza radicale, si sforzerร di adattarsi alle preferenze altrui. Diviene cosรฌ possibile, e altamente vantaggioso, adottare come bersaglio non il valore probabile delle singole imprese, ma la convenzione come tale. Si potrร cioรจ cercare di anticipare le scelte collettive, eventualmente di manipolarle e pilotarle, sfruttando la credulitร altrui per lucrare il massimo guadagno e scaricare sugli altri – piรน lenti o meno furbi – i rischi dell’operazione.
Il punto cruciale, per Keynes, รจ che il progresso tecnico e l’evoluzione spontanea dei mercati, se lasciati a se stessi, tendono non a ridurre ma, anzi, a potenziare al massimo la preponderanza della speculazione sull’impresa vera e propria. Nella logica dei mercati, infatti, il parametro del progresso รจ il loro grado di liquiditร e ยซfra i precetti della finanza ortodossa nessuno รจ piรน antisociale del feticcio della liquiditร ยป.
Possiamo a questo punto misurare la distanza abissale che separa Keynes dalle illusioni neoliberali. In buona o cattiva fede, il neoliberalismo ha costruito il suo successo sulla pretesa di aprire la strada allo spirito d’impresa, all’intraprendenza come generica capacitร umana di sognare il possibile e di renderlo reale. A questo scopo ha imposto che ogni singolo segmento della vita sociale prendesse le forme di un mercato, in cui ciascuno offre se stesso, i propri progetti e i propri sogni alla valutazione altrui. Oggi scopriamo a caro prezzo che l’intera strategia non รจ mai stata – nรฉ poteva esserlo – al servizio dell’impresa, ma della speculazione. E che a essere premiate dal sistema non sono perciรฒ le menti creative, i visionari, i coraggiosi, ma gli approfittatori e i ciarlatani. Con l’aggravante che tale squilibrio non รจ piรน confinato alla sfera dell’alta finanza, ma investe la vita sociale. La sfera pubblica, che nei sogni della modernitร doveva essere la leva dell’illuminismo, rischia di trasformarsi nel regno della piรน completa opacitร : un labirinto in cui ciascuno specchio riflette solo, all’infinito, la vanitร degli altri specchi.
ร su questo terreno paludoso che, un secolo fa, Keynes ha allestito il suo cantiere di ricerca. E sullo stesso terreno una diversa economia politica attende ancora di essere edificata.
Questo articolo รจ stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 19 maggio 2019