di Claudio Bazzocchi
Enrico Berlinguer è stato bistrattato per lungo tempo dai suoi accaniti estimatori che ne hanno fatto un santino piccolo-borghese di uomo perbene e onesto. Altri l’hanno addirittura definito un liberale, uno che ha avuto la sola colpa di non cambiare nome al PCI, per farlo diventare un partito socialdemocratico.
A questi “estimatori” va detto allora che Berlinguer fu comunista fino alla fine, proprio nel momento in cui gli fu chiarissimo che il compromesso tra capitale e lavoro stava entrando irrimediabilmente in crisi e che quindi non poteva essere socialdemocratica l’opzione per il PCI e per tutte le varie sinistre europee (socialiste e comuniste).
La sua riflessione fu allora in sintonia con le elaborazioni più avanzate, di frontiera, sul comunismo a partire dal rapporto tra uomo e natura, tra uomini e donne, dalla questione della tecnica e delle varie forme di liberazione che potessero compensare quella liberazione del lavoro che persino nella fabbrica del capitalismo di Stato non sembrava possibile. Inoltre, come si sa, il cosiddetto secondo Berlinguer spinse per il recupero della conflittualità operaia e sociale in genere affinché si potesse creare una nuova spinta dal basso in grado di porre nel paese le nuove grandi questioni a fronte della crisi del compromesso socialdemocratico.
Oggi, Enrico è fatto oggetto di attenzioni altrettanto morbose da parte dei cosiddetti sovranisti di sinistra che lo accusano di essere un traditore del movimento operaio, addirittura tra i primi fautori del neoliberismo, confondendo il suo richiamo contro i consumi individuali con l’austerità tout court.
Nessuno di questi ha mai letto evidentemente il famoso discorso dell’Eliseo del 1977. La proposta dell’austerità a quel famoso convegno aveva tra i propri obiettivi quello di scongiurare la deriva individualistica ed edonista dei consumi di massa. Ebbe a dire allora Berlinguer: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato».
Nel giungere alle conclusioni, da un lato affermò il valore della sua proposta per tutti coloro che, pur non essendo socialisti o comunisti, sentivano di voler combattere l’ingiustizia e l’insostenibilità prodotta dall’attuale modello di sviluppo, e dall’altro ribadì con forza che quella sua proposta andava oltre la logica del capitalismo: «Quando poniamo l’obiettivo di una programmazione dello sviluppo che abbia come fine la elevazione dell’uomo nella sua essenza umana e sociale, non come mero individuo contrapposto ai suoi simili; quando poniamo l’obiettivo del superamento di modelli di consumo e di comportamento ispirati a un esasperato individualismo; quando poniamo l’obiettivo di andare oltre l’appagamento di esigenze materiali artificiosamente indotte, e anche oltre il soddisfacimento, negli attuali modi irrazionali, costosi, alienanti e, per giunta, socialmente discriminatori, di bisogni pur essenziali; […] quando poniamo obiettivi di tal genere, che cos’altro facciamo se non proporre forme di vita e rapporti fra gli uomini e fra gli Stati più solidali, più sociali, più umani, e dunque tali che escono dal quadro e dalla logica del capitalismo?».
Berlinguer fu dunque una figura tragica. Vide correre incontro a sé tempi nuovi, caratterizzati dal consumismo e dall’emergere dell’individualismo borghese che si poteva scorgere anche in grandi vittorie quali quelle dell’aborto del divorzio. Aveva colto i temi, i pericoli e l’irrompere di un tempo nuovo che avrebbe messo in pericolo la repubblica dei partiti e la stessa Costituzione. E aveva risposto nel modo più coerente e giusto ma, sicuramente, alla lunga impopolare nel tempo incipiente del godimento sfrenato.
A quarant’anni dal monito berlingueriano si è andato affermando quello che il sociologo Mauro Magatti ha definito il capitalismo tecno-nichilista. La globalizzazione ha risolto il problema dell’addomesticamento del lavoro, del suo controllo grazie alla possibilità di trasferire fuori dai paesi ricchi la produzione. Il consumo è diventato centrale rispetto al lavoro. Vincolo non è più la produzione, dal momento che si produce in abbondanza, ma il consumo. E il consumo è divenuto dunque centrale nell’epoca in cui l’essere umano scopre che il cielo è vuoto, privo di ideologie, riferimenti, valori e religioni. Il capitalismo produce oggi il massimo della libertà individuale e della potenza tecnica volta all’autodeterminazione in un mondo privo però di qualsiasi tipo di narrazione verticale in grado di creare legami e desiderio. La biologia ha sottratto persino il potere di creazione a Dio e tutto diventa possibile, tutto e il contrario di tutto. Nonostante hegelismo, marxismo e psicoanalisi il mondo sembra essere trasparente, insieme di oggetti infinitamente manipolabili, persino geneticamente.
Evidentemente i nostri sovranisti antibelingueriani, che addirittura civettano con l’anticomunista Rizzo compagno di merende anti-PCI, non sanno che a partire dalla fine degli anni Settanta si cominciò a parlare di vulnerabilità del sistema pluralistico occidentale in una fase postmaterialistica. Non sarebbe bastato cioè rispondere col produttivismo ai bisogni di qualità sociale emersi negli anni Settanta. Infatti, nuove identità politiche collettive criticavano le socialdemocrazie sul versante della qualità dello sviluppo e della vita, e del potere della classe operaia nella democrazia economica, affinché fosse posta in discussione non solo la misura dello sfruttamento capitalistico, ma il suo stesso modo di essere e di operare nella vita dei lavoratori come nell’organizzazione produttiva. Si rendeva così necessario un nuovo patto tra politica dei gruppi di interesse e politica dei valori. Non ci si poteva aspettare infatti un’automatica connessione tra sviluppo e democrazia politica.
In un documento apparso su “Critica marxista” del 1982, scrisse Leonardo Paggi: «Le sinistre europee sono chiamate a dare un grande contributo innovativo a partire dallo sforzo di riproporre all’attenzione generale la scelta dei grandi criteri di valore su cui realizzare il consenso tra le diverse parti sociali». Ovviamente, si poneva a quel punto, dopo gli anni Settanta e la stagione dei movimenti, il problema di come intrecciare le tradizionali forme organizzative del movimento operaio – che ancora ponevano il binomio democrazia/sviluppo – con il bisogno di espressione creativa degli individui messo in campo dalle nuove soggettività politiche sorte dentro e fuori il movimento operaio stesso.
Nella fabbrica e fuori dalla fabbrica emergeva forte una domanda di espressione della creatività e della soggettività individuale fino a porre la questione grande della liberazione del lavoro. Il problema tutto politico era quello di non consegnare quel bisogno di soggettività all’individualismo e al privatismo borghese. Bisognava cercare di non farsi schiacciare da una destra che prese in mano il gioco politico oscillando tra inedite alleanze con le istanze sociali movimentiste e antistataliste e controllo tecnocratico e autoritario della protesta sociale e di tutte le “eccedenze” create dall’espansione della democrazia grazie allo stato sociale. Su questo furono lungimiranti le previsioni di Claus Offe proprio nei primi anni Ottanta.
Domanda: come si fa a non sapere che nel gruppo dirigente comunista alla fine degli anni Settanta, e in particolare in Ingrao e Berlinguer oltre che fra gli intellettuali che si riunivano al Centro per la Riforma dello Stato, c’era la massima consapevolezza della crisi della socialdemocrazia, del compromesso tra capitale e lavoro dei Trenta gloriosi e che quella crisi richiedeva uno scatto di elaborazione oltre la socialdemocrazia stessa? Ricostruire la storia d’Italia, oltre che d’Europa, come la storia di classi dirigenti che hanno lasciato campo libero al neoliberalismo è davvero ingenuo e mistificante. Non sapere che il neoliberalismo è proprio la risposta indovinata ed egemonica alla crisi dei Trenta gloriosi è un peccato imperdonabile.
Non vedere che quel compromesso entra in crisi a partire dall’insostenibilità politica, economica e sociale che cominciava a maturare proprio dalla metà dei Settanta – e di cui tutti i dirigenti della sinistra europea socialista e comunista erano ben consapevoli – è davvero miope. Non capire che proprio quel compromesso aveva liberato forze sociali e culturali che cominciarono a sentirsi strette nell’idea di libertà dei Trenta gloriosi è ingenuo. Tutti i migliori di quel tempo, intellettuali e dirigenti, si affaticarono su questi grandi temi. Basta leggersi il dibattito sulle maggiori riviste italiane del tempo per rendersene conto. Ecco, per tutti questi motivi il discorso dell’Eliseo rappresenta uno dei vertici di consapevolezza della crisi ed è tutto tranne che un cedimento al neoliberismo e non ha niente a che fare con l’austerità intesa appunto secondo i canoni neoliberisti. Berlinguer, e con lui Moro, si pose il problema di come mantenere il consenso e uno spirito popolare in un’Italia che stava per essere egemonizzata dall’idea di libertà neoliberale e dal conseguente individualismo.
Ho scritto una cosa sicuramente troppo lunga per contrastare le mistificazioni degli ignoranti e dei bugiardi (c’è chi non sa e c’è chi mente sapendo di mentire) su Facebook. Non importa. Oggi, l’importante è mantenere in ordine le carte, dare un segnale che ancora qualcuno tiene accesa la luce nel sottosuolo.