di Norberto Bobbio
La Piazza della Loggia di Brescia è un luogo della memoria. Di una memoria dolorosa per i morti e i feriti che l’hanno insanguinata, per il modo con cui sono stati uccisi e colpiti, per la verità contestata e negata. Uno dei tanti, troppi, luoghi in cui la restaurata libertà, che avrebbe dovuto dar vita a una pacifica convivenza, non ha impedito la morte di tante vittime innocenti e invendicate. Una memoria che non può e non deve essere cancellata. I familiari e gli amici delle vittime non possono cancellarla. Gli italiani non debbono.
Vi sono due forme diverse della memoria: quella interiore e quella esterna. La memoria esterna, che si manifesta nelle cerimonie ufficiali, nei discorsi commemorativi, nelle lapidi, nei monumenti, nei libri di storia, nelle testimonianze dei protagonisti, nella riproduzione di immagini dell’evento, ha senso soltanto se serve a mantener viva la memoria interiore. La può sollecitare, ma non la sostituisce. L’una è la memoria morta, l’altra la memoria viva. In un cimitero osserviamo una madre inginocchiata di fronte alla tomba del figlio. La tomba è la memoria esterna; la madre, che ha posato su di essa un mazzo di fiori e prega, rappresenta la memoria interiore. La lapide è, di per se stessa, muta […].
Ma la morte può essere collettiva come quella di cui si parla quando si rievoca una strage? No, nella memoria interiore la morte è sempre individuale. Diciamo per convenzione: una decina, un centinaio di morti. Ma ogni morte è diversa dall’altra, come del resto ogni nascita. Ciascuno muore come singolo e solo, con gli affetti che lo hanno nutrito, con le fantasie che lo hanno aiutato a vivere, con gli incubi che lo hanno tormentato, coi suoi vizi e le sue virtù, con le sue abitudini, il suo modo di parlare, di ridere, di soffrire. La memoria esterna li accomuna, la memoria interna soltanto è capace di restituire a ciascuno la propria vita e quindi anche la propria morte. Rievocando a una a una quelle vittime, e non tutte insieme, la strage appare ancora più orrenda. Dietro ogni vita stroncata c’era un universo di affetti e di progetti che è stato irrimediabilmente distrutto […].
La rimembranza è stimolo alla riflessione. Non è la prima volta del resto che quel che avvenne il 28 maggio 1974 è oggetto di riflessione storica, politica, filosofica e religiosa. Un evento così spaventoso non può non suscitare mille domande cui è difficile dare risposte. Soprattutto due, la cui mancata risposta ci ha lasciato un amaro senso di impotenza: «Perché quel delitto è stato compiuto? Perché dopo vent’anni non sappiamo ancora chi siano stati gli autori?». La prima domanda ci obbliga ad affacciarci al problema del bene e del male, la seconda a quello della verità e della menzogna. Sono domande ultime, perché ne dipende la conoscenza che noi dovremmo avere di noi stessi: sappiamo benissimo che la nostra vita è continuamente minacciata e avvilita dalla mancanza di giustizia e di verità.
Il male, sotto forma di violenza, assume diversi aspetti, ha diverse gradazioni: la situazione limite del male è il male radicale, ovvero il male per il male su cui ha scritto pagine indimenticabili Primo Levi nell’ultimo suo libro, I sommersi e i salvati. Il male compiuto con nessun altro scopo che quello di fare il male. Testualmente: «La violenza fine a se stessa, volta unicamente alla creazione del dolore; talora tesa a uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuori di proporzione rispetto allo scopo medesimo». Fra tutte le azioni delittuose che gli uomini possono compiere contro altri uomini, la strage è uno di quelli che più si avvicina al male radicale. Di qua la sua eccezionalità, e proprio per questa sua eccezionalità è più difficile da comprendere. Ciascuno di noi è disposto attraverso la propria esperienza quotidiana a capire il delitto passionale, il delitto di chi uccide per essere stato colto in flagrante, il delitto di chi si vendica di un suo nemico, la violenza in guerra, in cui sei costretto ad uccidere chi ritieni o sei indotto a ritenere tuo nemico. Nella normalità dei casi chi uccidi è il tuo nemico vero o presunto […].
Ebbene, la caratteristica della strage è quella di essere, fra tutte le forme di violenza, quella più vicina alla violenza assoluta: è il massimo delitto, l’omicidio, diretto consapevolmente contro degli innocenti. Colui che colloca una bomba micidiale su un treno o nella sala d’aspetto di una stazione sa con certezza che le vittime che il suo gesto produce non hanno, rispetto al fine o ai fini che egli si propone, nessuna colpa. Non colpisce il nemico, vero o presunto, ma a capriccio coloro che si trovano per puro caso su quel treno, in quella sala d’aspetto, su una piazza. Non voglio dire che lo stragista non abbia un nemico da colpire o di cui vendicarsi. Ma il suo nemico è altrove: l’eccidio degli innocenti è soltanto un mezzo per colpire indirettamente un nemico che solo lui sa o deve sapere chi sia e dove sia.
Non c’è forse modo più perverso di ridurre l’uomo a mezzo che quello di considerare puro mezzo di un disegno ignoto la sua morte violenta. Voi potreste obiettarmi che sono innocenti anche coloro che il pilota di un aereo di guerra uccide sganciando una bomba su una città. Ma sono, questi innocenti, per lui nemici, quelli che il potere gli ha imposto o fatto credere di essere suoi nemici. Può esserci un solo argomento per attribuire la qualità di nemico a coloro che si trovavano, venuti dalle più diverse parti e per motivi più diversi e coi progetti di vita più disparati, in quella mattina d’estate nella sala d’aspetto nella stazione di Bologna? […] E se al di là dei fini specifici ci fosse soltanto, o anche, un irresistibile delirio di potenza? Uccidere è un modo per affermare la propria superiorità. Quale maggiore espressione di potenza che uccidere da solo, con un solo atto, non un uomo ma molti uomini insieme? Ucciderli a tuo arbitrio, di nascosto, come un demone terribile e ignoto?
Questo articolo è stato pubblicato da Avvenire.it il 26 maggio 2014