I beni comuni spiegati a chi ne ha paura

2 Aprile 2019 /

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di Salvatore Settis
Il grande tema dei beni comuni guadagna spazio nel Paese. Raccoglie consensi, ma suscita aspre divisioni: perché? L’idea dei beni comuni piace perché implica una collettività capace di gestire se stessa, e perciò suscita speranza, a contrasto con la crisi della democrazia rappresentativa.
Ma come definire i beni comuni e la loro funzione? Ugo Mattei e Alberto Lucarelli hanno rilanciato, proponendolo all’iniziativa popolare, il disegno di legge prodotto nel 2007 da una commissione presieduta da Stefano Rodotà; ma subito si sono levate voci critiche, in particolare di Paolo Maddalena e Stefano Fassina, a sua volta promotore di un disegno di legge contrapposto. Più vicina a quest’ultima è una terza posizione, espressa da comunità che gestiscono beni comuni (dall’Asilo Filangieri di Napoli a Mondeggi presso Firenze, a Casa Bettola di Reggio Emilia), secondo cui la proposta Mattei, “che era all’avanguardia dieci anni fa, oggi risulta insufficiente”.
Per orientarci in questo rompicapo, cominciamo col dire che se avessimo la fortuna di avere ancora tra noi Rodotà, egli sarebbe il primo a volere l’aperta discussione della proposta che firmò undici anni fa. La Relazione della sua stessa Commissione consente di fare un po’ di storia. Tutto parte da quando Tremonti, ministro dell’Economia nel governo Berlusconi, varò la Patrimonio dello Stato SpA, un marchingegno (fallimentare) che rendeva vendibile ogni proprietà pubblica.
In quel contesto, mentre Giuseppe Guarino proponeva la riduzione del debito pubblico mediante il massiccio trasferimento ai privati del patrimonio immobiliare dello Stato, Tremonti avviò (inizio 2002) lo studio di un Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche, affidato a una ditta privata (Kpmg) e finalizzato alle dismissioni. Nel marzo 2003 Sabino Cassese, Antonio Gambaro, Ugo Mattei ed Edoardo Reviglio mandarono a Tremonti un Memorandum che proponeva una commissione di riforma del contesto giuridico dei beni pubblici. Prontamente approvato da Tremonti, quel progetto si fermò quando all’Economia lo sostituì Siniscalco (luglio 2005), ma venne ripreso dal governo Prodi, e il ministro della Giustizia Mastella costituì la Commissione Rodotà (luglio 2007).
La sua Relazione (15.2.2008) considerava il regime di proprietà del Codice civile (1942) ormai obsoleto dopo i forti cambiamenti tecnologici ed economici e per il ruolo assunto da nuove forme di beni (immateriali, finanziari ecc.), ma senza menzionare la più importante novità intervenuta: la Costituzione, che collega la proprietà ai diritti di cittadinanza e alla funzione sociale (art. 42).
Questo il contesto in cui nacque la legge di iniziativa popolare, riproposta oggi in una situazione assai mutata. Allora come ora, infatti, il ddl prevede una delega piena al governo per la modifica del Codice civile: ma il governo di oggi non è forse quello in cui una Lega straripante propugna una devoluzione regionale che sconfina nell’auspicata (da loro) secessione del Nord? Per non dire di un possibile governo a guida leghista, chiaro obiettivo di Salvini con la complicità di Berlusconi & C.
Che senso ha, in questo contesto inimmaginabile nel 2008, scrivere, come fa la proposta Mattei, che “titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati” (comma 3 c)? Che senso ha, oggi, parlare di “gestione e valorizzazione di ogni tipo di bene pubblico” anche “da parte di un soggetto privato” (c. 2e)? Perché abolire il Demanio senza indicare chi ne prenda il posto per rappresentare “lo Stato” che pure è richiamato al c. 3c? Il riversamento dal demanio di Stato a quello di Regioni e comuni è sempre stato l’anticamera delle privatizzazioni: una totale sdemanializzazione non avrebbe effetti ancor peggiori? Una buona proposta di legge non dovrebbe contenere forti controveleni?
Il tema è troppo importante per liquidarlo solo perché fra chi ne parla non c’è accordo. È necessario disaccoppiare il tema del beni comuni, centralissimo, dalle soluzioni proposte. Non irrigidirsi su questa o quella ipotesi, ma confrontare la diversità delle voci. Se vogliamo costruire una visione comune, è necessario partire dalla Costituzione, ma anche dalla convergenza di antiche e sopravviventi tipologie di beni comuni con nuove e promettenti forme di gestione. L’art. 42 Cost. riconosce due sole forme di proprietà, pubblica o privata, ma tace dei “beni comuni”, eppure in Costituente se ne parlò.
Si ricordarono allora gli usi civici gestiti da comunità di cittadini, ma si decise di non menzionare nella Carta questo “altro modo di possedere”, assorbendolo invece nella categoria dei beni pubblici. Affermato il continuum fra beni pubblici e beni comuni, rimasero nella Costituzione alcune tracce delle proprietà collettive, come le “comunità di lavoratori e di utenti” dell’art. 43. Inoltre, ed è ancor più importante, la Carta nel suo insieme consacra la vocazione dei beni collettivi (pubblici e/o comuni) a farsi strumento per l’esercizio dei diritti dei cittadini e della libertà democratica.
Gli usi civici sopravvivono con enorme varietà locale, dai demani del Sud alle regole del Cadore. Ne restano oggi un milione di ettari (tre milioni nel 1947): proprietà collettive nate da forme spontanee di auto-organizzazione imperniata su uno spirito comunitario. Ma a questa mappa residuale, che andrebbe rilanciata e vitalizzata, si unisce ora, con visibile affinità di intenzione etico-politica, una trama di nuove realtà di autogestione, a cui appartengono l’Asilo di Napoli e molte altre realtà sparse in tutta Italia (come a Pisa il Teatro Rossi).
Oggi dunque parliamo dell’universo dei beni comuni in una situazione doppiamente nuova: da un lato la deriva della politica verso la destra leghista, dall’altro la crescente consapevolezza della funzione civile delle proprietà collettive. La nozione di beni comuni dev’essere perciò rivista, nel quadro della Costituzione, partendo al tempo stesso da qualcosa di antico (gli usi civici) e da qualcosa di molto nuovo (le esperienze di autogestione di questi anni).
Questa la lezione di un’affollatissima assemblea sul tema convocata qualche giorno fa a Venezia da Libertà e Giustizia (Riviera del Brenta) e da numerose associazioni cittadine. E che fosse a Venezia non è un caso: le irresponsabili minacce che pesano sulla Laguna e sulla città richiedono urgenti contromisure, un’acuta e consapevole attenzione al bene comune, alle proprietà collettive, ai diritti delle generazioni future. Per parlare oggi di beni comuni si deve ripartire “dal basso”, dalla ricchezza e varietà delle esperienze locali di autogestione: quelle volute da noi, i cittadini.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 28 marzo 2019

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