Artedonna: forme di democrazia culturale

12 Febbraio 2019 /

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di Silvia Napoli
Bisognerebbe veramente entrare dentro un sistema di relazioni molto complesso, che investe vari e numerosi ambiti, per poter parlare con serenità e cognizione di causa di una delle poche kermesse fieristiche veramente glam rimaste in dote alla città di Bologna. Una tre giorni ufficialmente, questa tanto sofisticata e popolare Artefiera, almeno rispetto al discorso mercantile e invece come panoramica a 360 gradi, piacevolmente invasiva di spazi pubblici, privati, istituzionali e alternativi evento che si allunga per almeno una decina di giorni come festival e che lascia in eredità alla cittadinanza per qualche tempo, esposizioni importanti, corpose e destinate a far discutere.
Quest’anno è nuova, la direzione organizzativa di Artefiera e più bolognese come appartenenza. Sostanzialmente, però, il thinktank della situazione festival è in mano in primis alla Presidenza e Direzione dell’istituzione Musei e ai dipartimenti universitari deputati al settore artistico. Naturalmente poi vengono coinvolte moltissime altre situazioni che fanno capo all’Assessorato alla Cultura, in modo che contenuti e tendenze nuove, nuovissime o già storicizzate, non solo nei manuali di settore, ma rappresentative della storia cittadina di comunità, trovino sedi appropriate di discussione e sedi viceversa talvolta spiazzanti di incontro-confronto.

Il fiume di adepti dalle scarpe buone che setaccia la città nella mitica e festaiola notte bianca dell’Arte, spettatore e attore contemporaneamente dei sin troppo numerosi eventi, sembra abolire icasticamente qualsiasi gerarchia di valore e di importanza nel senso comune del termine, tra spazi ufficiali e paludati e spazi off off presto destinati alla sparizione programmatica o al contrario alla cooptazione sistemica.
È la messa in mostra della affollata e più che partecipata democrazia culturale della nostra città, dotta e pop, venusta e sempre giovane, quantomeno al calar della sera e alla posa degli spritz. Una accezione largamente comunicativa dell’Arte è quella predominante in questo contesto e forse stavolta più di altre. Poca contemplazione, poco ripiegamento individuale e invece molte azioni, molta documentazione in video, molta concettualista e spazialismo. Abitare, rigenerare, guardare con occhi critici o complici i nostri luoghi e le nostre controverse compagne – macchine, sembra una delle piste più consistenti del momento.
Il discorso urbanistico, la riflessione tecnologica, il rapporto pur sempre controverso e dicotomico tra Natura e Cultura, il ruolo sociale delle pratiche artistiche sono temi tanto assenti dal discorso pubblico quanto dilaganti presso gli artisti prescelti dai principali curatori cittadini. Gli artisti del momento sembrano immuni dal cliché filmico del maledettismo estetizzante, ma anche dal la variante sin troppo stilosa e scanzonata dei tempi recenti. Meno tartine e più sobrietà per tempi non facili che richiamano la necessità di distanziarsi da un ‘edonismo facilone, persino dribblato da un djset scatenato eppure pensoso al party after più atteso, quello del nostro Mambo: un evento mondano esclusivo per sonorità e dislocazione, ma non nell’accesso, orgogliosamente e miracolosamente libero sotto ogni profilo…
I convenuti, anche inaspettatamente giovanissimi, sono solo molto parzialmente consci di essere loro l’attrazione antropologica della situazione nel momento in cui si crea un travaso spontaneo e attento tra la sala delle ciminiere naturalmente aperta e l’area bar: a notte fonda sono ancora in tanti in fila eppoi ammirati e incuriositi dinnanzi alla personale, première italiana assoluta, delle opere della giovane artista argentina poi naturalizzata americana Mika Rottenberg.
Una scelta azzeccata che porta a valore in modo esemplare tutte le tematiche di cui sopra. Forza, ironia, uso della tecnologia come strumento capace di determinare distanza critica su problemi molto concreti, rilettura del corpo spiazzante tramite una sorta di morphing barocco e carnevalesco, contribuiscono a contraddire in pieno la abusata narrazione del quid artistico femminile costituito di sentimento, bellezza, fisicità erotica.
Le videoinstallazioni di Mika Rottemberg, storie senza conclusione, ma affatto sconclusionate, rafforzate nel cote grottesco da contrappunti sonori elettronici, popolate prevalentemente da donne talmente comuni e fuori formato standard ideale da apparire se non eccezionali, almeno protagoniste, sembrano il mondo bizzarro di una Alice nel paese delle paccottiglie che ha mixato lisergicamente Marx e Marcuse, questioni di razza e di genere,morfologia del territorio e grandi querelle ambientali.
Che sia proprio lei la proterva talpa che scava a erodere le certezze e illusioni da abbondanza all you can eat, di una società globalizzata che sembra sempre troppa in tutte le sue estensioni e che sta serenamente sul limite precario di un black out di punti di riferimento? Tutte queste porte della percezione che si aprono e chiudono, o coperchi o altre aperture e vie di fuga, sempre mal dimensionati rispetto ai personaggi, comunicano con un nulla che non è però surrealista, come si potrebbe pensare, ma è la iperrealtà che ci disorienta di continuo, senza tuttavia lasciarci liberi realmente di evadere o prescindere. Chi scrive, pur appassionata di video arte, stenterebbe ad inscrivere le opere di Rottemberg in questa categoria, perché la fisicità, l’ammiccare a chi guarda, la costruzione architettonica, sono tali da far pensare piuttosto ad ambienti performanti e interagenti con chi guarda.
Mika Rottemberg, partendo da una visionarietà molto personale, da un timbro stilistico riconoscibile, mette in fila i termini di un discorso fatto apposta per parlare a tutti di ciò che è sotto i nostri occhi eppure non riusciamo a vedere. Forse, come in un fantasy distopico di grande successo, noi viviamo la realtà come un sogno, un po’ alla maniera di Lynch, ma senza le ossessioni psicanalitiche del maschio occidentale. Rottemberg, avrebbe dovuto presenziare ad un incontro organizzato per lei dall’ottimo Lorenzo Balbi, curatore di Mambo, insieme al grande critico Germano Celant, invece è stato per ora possibile apprezzare la di lei simpatia, cultura, umiltà e questa sorta di femminismo 4.0, molto ben rappresentato in galleria dalla installazione Ponytail, solo in video collegamento Ma la notizia è che l’incontro si farà, verrà recuperato il 20 febbraio, stante il fatto che la mostra resterà per fortuna aperta fino a primavera.
Come dicevamo, questa edizione ha recuperato la vitalità della performance derivata oltre che dalla pura azione body art, per intenderci quella di ascendenza Abramovic anche nel senso di lettura di genere dalla combinazione di media diversi :dopo l’incontro pubblico con la grande performer francese Orlan, quella dei sei interventi chirurgico-estetici, per intenderci,, ho veramente potuto misurare il guado e nello stesso tempo il legame necessario, di tipo genealogico che rende diverso lo sdegno, la critica, il senso di assoluto, il discorso sulla femminilità tra le artiste in questione nell’arco di questi 40-50 anni, davvero non trascorsi invano, per ciò che riguarda il movimento globale delle donne.
L’affollato incontro pubblico organizzato ai laboratori Dams, forse con un pizzico di incoscienza o sicumera di troppo, tanto da non prevedere traduttori dal francese, nella serata del venerdì che dava il via al weekend più artistico dell’anno, ha fatto vivere alla platea abbastanza sconcertata di giovani damsiani, l’esperienza di un happening degno di provocazioni sessantottine, quali i festival di Castelporziano e Parco Lambro.
Tutto questo quando si è scatenata una bagarre triangolare, tra una parte di pubblico agé e bene informata, la performer stessa e il decano dei docenti-critici del Dipartimento Arti visive Renato Barilli, che forse sentendosi comprensibilmente ma innaturalmente, l’ultimo testimone di una epopea di scoperte, studi, esplorazione e battaglie, mai potuta completare dai compianti Alinovi e Daolio, si sentiva in dovere di chiosare qualsiasi affermazione di Orlan, ben decisa viceversa a raccontare a modo suo e puntigliosamente tutte le tappe di una lunga e controversa carriera, tanto da azzerare a un certo punto con urlo belluino e prolungato, qualsiasi discussione e rendere ininfluente la presenza del professore, che batte sdegnosamente in ritirata.
Non ho potuto fare a meno di notare il trait d’union concettuale tra Orlan e Rottemberg nella volontà precisa di rompere gli schemi di rappresentazione del corpo femminile ed è certamente in virtù di tanta e tale dissacrazione portata avanti per decenni da Orlan,in qualche modo invulnerabile nella sua solidità nuda o occultata, scopiazzata a man bassa da tante dive del pop odierno, che quest’ultima può passare il testimone ad una forse meno rabbiosa, ma certamente anche meno ombelicale generazione di artiste ben decise a dire la loro sulla globalizzazione.
Orlan per due ore e mezza senza cedimenti, icona di stile, sorta di Cecilia Matteucci versione punk, autorevole Crudelia a chioma bicolore, catechizza il pubblico con arroganza degna di Miles Davis, senza profferire verbo in italiano e mai togliersi gli occhiali scuri, in una carrellata tra interventi chirurgici ad occhi aperti ed estasi Di Santa Teresa che lascia senza fiato anche per gli esiti. Il massimo del corporeo infine approda alle più sofisticate biotecnologie, chiudendo il cerchio con l’oggi in modo vertiginoso e sempre cercando di rispondere alla solita vecchia questione sulla legittimità della soggettività identitaria nell’arte: o non dovremmo parlare in fondo di un general intellect, figlio dello spirito dei tempi?
Bologna si candida a diverse eccellenze nel mondo e, a mio avviso, considerando anche la folta schiera di intellettuali donne e imprenditrici-mecenati di vaglia presenti nel territorio, perché non auspicare un grande ciclo di artiste donne da ospitare e valorizzare proprio qui, tessendo una trama tra istituzioni culturali e privati che si è ben evidenziata in questa rinnovata edizione di Artefiera? In attesa di un riscontro a questa mia suggestione, dall’intento niente affatto separatista, quanto piuttosto storicista, consiglio di affrettarvi a selezionare questa leva di artisti, uomini e donne, dal profilo concettuale ancora presenti in Città con le loro opere, dopo la sbornia del fine settimana and… enjoy.

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