I problemi del reddito di cittadinanza

6 Febbraio 2019 /

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di Roberta Carlini
Il divano c’è sempre, ma la donna è in piedi e un fumetto con una lampadina le accende il pensiero.
Alle spalle, uno scaffale con qualche libro. Anche sul sito del governo lanciato il 4 febbraio per illustrare il reddito di cittadinanza – e su cui dal 6 marzo si potranno presentare le domande – il totem che ha dominato la discussione sulla misura simbolo del Movimento 5 stelle resta il divano. O meglio, la paura che il provvedimento, immaginato come “una misura di politica attiva del lavoro di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all’esclusione sociale”, finisca per disincentivare il lavoro, inducendo le persone a restare sul divano di casa invece di “attivarsi” e cercare un impiego.
Tuttavia, com’è risultato evidente durante la presentazione del sito e della “card” fatta dal vicepremier Luigi Di Maio, il reddito di cittadinanza non è un reddito ma una carta acquisti delle Poste italiane che vale 18 mesi; e non è di cittadinanza perché per averla servono altre condizioni oltre a essere cittadini italiani. Ossia, bisogna essere poveri e disponibili a lavorare.

La prima condizione, la povertà, definisce la platea delle persone a cui si rivolge la legge. La seconda, essere disponibili a lavorare, iscrive il nuovo strumento nella filosofia del workfare, che in Europa ha cambiato il modello del welfare tradizionale e ha subordinato l’aiuto a chi è in difficoltà alla sua “attivazione” sul mercato del lavoro. Questo modo di vedere le cose si porta dietro un apparato fatto di controlli e punizioni, che nel caso del reddito di cittadinanza è molto più esteso rispetto al reddito di inclusione sociale (Rei), voluto dal precedente governo Gentiloni.
La platea
Come ha spiegato Pasquale Tridico, consigliere economico di Di Maio e tra gli ideatori del provvedimento, il nuovo reddito è, a tutti gli effetti, una prosecuzione e un ampliamento del Rei. Ma il Rei era sottofinanziato e riguardava solo 378.557 nuclei familiari, per un importo medio mensile di 305 euro.
La nuova carta raggiungerà 1,3 milioni di nuclei familiari, secondo la relazione tecnica del governo. L’Inps però abbassa la stima a 1,2 milioni, e dice che i meccanismi della legge premieranno soprattutto i nuclei familiari composti da una sola persona.
Per fare la richiesta, i nuclei familiari dovranno rispettare una serie di requisiti: avere un indicatore della situazione economica equivalente (Isee) inferiore a 9.360 euro; un reddito familiare inferiore ai seimila euro all’anno se si è proprietari della casa dove si vive, e a 9.360 euro se si vive in affitto; un patrimonio immobiliare, esclusa la casa di residenza, non superiore ai 30mila euro; e un patrimonio mobiliare (depositi, titoli, azioni) inferiore ai seimila euro. Per fare un esempio, una persona che vive da sola e in affitto, a fine mese può ritrovarsi sulla carta 780 euro.
Nord e sud
Quanto alla distribuzione geografica, ci sono pochi dubbi: più della metà del reddito di cittadinanza andrà alle persone che vivono nelle regioni del sud e nelle isole, visto che qui si concentrano le famiglie più povere secondo l’Istat. Sicilia e Campania sono in vetta.
Nella ripartizione geografica del beneficio, il nord è penalizzato da due fattori. Il primo è che il provvedimento non tiene conto – come fa per esempio l’Istat quando stima la povertà assoluta in Italia – né del costo della vita (più alto al nord) né della differenza tra grandi e piccoli centri (in un’area metropolitana del nord la soglia di povertà assoluta è di 826 euro, mentre in un piccolo comune del sud è di 560 euro).
Il secondo è che il provvedimento esclude il 36 per cento degli stranieri che vivono in Italia: per ottenere il reddito di cittadinanza, infatti, è necessario non solo il permesso di soggiorno di lungo periodo ma anche la residenza da almeno dieci anni nel paese. Parliamo di circa 90mila famiglie, che vivono in maggioranza nell’Italia del nord.
Le offerte di lavoro
Il reddito di cittadinanza è condizionato alla disponibilità a lavorare. Ossia a iscriversi ad appositi programmi previsti dai centri per l’impiego e ad accettare le loro offerte. L’obbligo diventa via via più stringente: entro dodici mesi la prima offerta potrà arrivare nel raggio di cento chilometri (o cento minuti di viaggio); se è rifiutata i chilometri diventano 250; mentre la terza offerta può arrivare da tutta Italia.
Con il passare del tempo si allontana la corrispondenza tra il livello della qualifica e il lavoro che si deve accettare. Ma soprattutto, il contratto di lavoro può anche essere a termine. Per fare un esempio, dopo un anno e alla terza offerta di lavoro, una famiglia potrebbe essere costretta, per non perdere il reddito di cittadinanza, a spostarsi da Grottaminarda, in provincia di Avellino, a Brescia, con un salario che a malapena coprirebbe l’affitto.
In questo caso il reddito si trasforma da sussidio ai poveri in sostegno alle aziende, perché riduce i contributi sociali che devono pagare. Qui si evidenzia in modo chiaro la natura ambigua della misura: è un sostegno ai poveri, alle aziende o all’occupazione? E, in questo caso, di che occupazione parliamo? Quali, tra le aziende italiane – che attualmente ricorrono pochissimo ai centri per l’impiego – sceglieranno di assumere “i poveri”?
Problemi
L’enfasi sul divano e sull’obbligo del lavoro, oltre a dare per scontato che i poveri siano tali perché non lavorano o non vogliono lavorare, crea alcuni effetti negativi. Il primo è che per togliere queste persone dal divano e trovargli un lavoro bisognerà occuparne altre in tempi brevi. Per questo saranno assunte alcune migliaia di “navigator” in fretta e furia: una mossa che ha un suo ritorno in tempi di campagna elettorale per le europee, ma che non basta a portare i centri per l’impiego ai livelli europei.
Il secondo è che la lotta ai possibili illeciti, dalle false dichiarazioni per ottenere il reddito a chi lavorerà in nero per non perderlo, è fatta puntando più su punizioni e manette che su disincentivi e controlli incrociati.
Un approccio che i cinquestelle hanno sposato con enfasi, ma che rischia di ridurre il grande tema della lotta alla povertà e alle disuguaglianze alla cronaca quotidiana della caccia ai “furbetti” e agli evasori, con guardia di finanza impiegata per fare controlli su chi rifiuta le offerte invece che come strumento contro la grande evasione.
Questo articolo è stato pubblicato da Internazionale il 5 febbraio 2019

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