Cosa è (e cosa non è) il reddito minimo degli altri Paesi europei

25 Ottobre 2018 /

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di Giovanni Perazzoli, Stradeonline.it
Comprensibilmente il reddito minimo condizionato degli altri paesi europei suscita molta perplessità in Italia. È difficile orientarsi, anche perché il principio sembra cozzare con il senso comune. Come? Chi non lavora ha un reddito? Nonostante esistessero da lungo tempo, di questi strumenti non abbiamo saputo nulla, al massimo è sembrato che fossero cose da paesi scandinavi, paesi poco popolati, un po’ strani. Scoprire che la Francia è forse il paese con il welfare più generoso è troppo destabilizzante, si oppone al senso della realtà. Doveva succedere.
I populisti hanno approfittato, in direzione antieuropea, dell’ottusa difesa della politica italiana (a destra come a sinistra) del welfare corporativo e clientelare. Proverò qui a rispondere ad alcune domande, cercando di cogliere lo spirito di questo sistema. Partiamo dai nomi. I “redditi di cittadinanza” o i “redditi di inclusione” degli altri, Francia, Germania e Regno Unito, si chiamano: Revenu de solidarité active, Arbeitslosengeld II, Jobseekers allowance.
Alt! Ma è corretto l’uso di “reddito di cittadinanza” del M5s?
A molti è parsa, con buone ragioni, una denominazione ingannevole, perché allude a un welfare incondizionato; potrebbe però essere difesa così: se il revenu de solidarité active francese fa perno sul valore della “solidarietà”, quello del M5s fa perno sulla “cittadinanza”. Allo stesso modo, il Rei (Renzi-Gentiloni) fa perno sull'”inclusione”. Non mi fermerei sui nomi. Bisogna cercare di cogliere invece lo spirito di questi sistemi di welfare, se non si vuole prendere per buone le patacche.

Dunque, gli altri paesi europei hanno un sistema di welfare per disoccupazione radicalmente diverso da quello italiano?
Sì, si tratta di active labour market policies; non mirano all’assistenzialismo, ma vogliono rendere più efficiente il mercato del lavoro, con una rete diffusa di centri per l’impiego, corsi di formazione, e una serie trasferimenti monetari, finanziati dalla fiscalità generale, che includono un reddito minimo, assegni per i figli, assistenza sanitaria, assegni per l’alloggio. Condizioni essenziali: cercare un lavoro e non avere un reddito superiore a una determinata soglia. Questi sussidi hanno una durata illimitata (In Francia sono rinnovabili ogni tre mesi, senza un limite) e intervengono anche ad integrare il reddito di un occupato che guadagni poco. Chi si iscrive al centro per l’impiego può rifiutare solo due o tre offerte di lavoro, le quali devono essere il più possibile coerenti con la qualifica lavorativa dell’assistito (un insegnante non può lavorare come idraulico e viceversa).
A questo punto cade la domanda fatidica: quanto ottiene un disoccupato?
Non si deve pensare a un assegno fisso, gli importi (vedi tabelle nei siti citati) partono da una base per il singolo, a cui si aggiungono degli assegni per i figli. Per dare un’idea, si può partire da una base di 400 euro per arrivare, con i figli, a 2000 euro. Qui le tabelle relative al Rsa francese, alla ALG II tedesca, e al JSA inglese. Si parte sempre da una base individuale a cui sono sommati altri assegni secondo la composizione della famiglia.
Abbiamo anche in Italia una cosa simile, ad esempio la NASPI?
No, questo è un punto essenziale. La NASPI è un’indennità di disoccupazione, esiste anche negli altri paesi: è un’assicurazione contributiva contro la disoccupazione; non è illimitata, ma dura, in genere, uno o due anni; non parte da un minimo vitale, e dunque è più ricca, essendo calcolata in percentuale sul salario perduto. Qui è spiegata la differenza tra le due forme tedesche di benefit, Alg I Alg II. Qui un video chiarissimo in francese.
Vabbè, ma il reddito minimo condizionato è semplicemente un “sussidio di disoccupazione”, giusto?
Tutto sommato, no. Sono benefit legati all’occupazione, ma il loro senso è quello di garantire un reddito minimo a tutti, fatte salve le condizioni di partenza: la ricerca di un lavoro, la prova dei mezzi. Può ottenerlo chi non ha trovato un lavoro al termine dell’indennità di disoccupazione, ma anche chi, giovanissimo, inizia a cercare un lavoro. L’idea è quella di fornire una rete che garantisca comunque un reddito.
Dunque, un giovane che non abbia mai lavorato e che cerca il suo primo impiego ha diritto a questi benefit?
Sì, se il centro per l’impiego non ha un lavoro da proporgli. In Germania si può chiederlo dai 15 ai 65 anni. Va notato che in Germania, esiste anche il Kindergeld, per i bambini, una cifra intorno ai 200 euro al mese, elargita indipendentemente dal reddito dei genitori. Dopo i 65 anni c’è la pensione. In Inghilterra si ha diritto ai benefit per la disoccupazione a partire dai 16 anni. In Francia, dai 25.
È una cosa per i poveri?
No. Uno dei primissimi incagli culturali è l’idea che il welfare sia diretto agli emarginati, gli esclusi, i poveri. Parliamo certamente di strumenti di contrasto della povertà. Ma la platea dei possibili beneficiari, soprattutto tra i giovani (visto che la famiglia di provenienza non incide sulla determinazione patrimoniale), è molto ampia, il beneficiario non entra in un “programma di aiuto”, se non nel senso che può usufruire di corsi di formazione. L’ottenimento è immediato, basta iscriversi al centro per l’impiego. Questo è molto importante per capire lo spirito del sistema. Il senso è più quello di una dotazione economica condizionata che permetta di investire in una carriera lavorativa, e per questo è un efficace contrasto alla povertà. Naturalmente il confine tra dotazione e assistenza è labile, e soprattutto è soggettivo: dipende da come le persone sono capaci di usare questi redditi. L’obiettivo è però il lavoro, non l’assistenza. I centri per l’impiego sono una parte essenziale: devono poter raccogliere l’offerta di lavoro. E il lavoro deve esserci. Niente “fine del lavoro”, dunque. Queste politiche possono contribuire, invece, all’aumento della disponibilità di lavoro.
Ma allora il “tramonto del welfare europeo”?
Bisogna proprio disintossicarsi da questa baggianata del tramonto del welfare. Se ne è scritto in Italia per le riforme di Blair e di Schröder. Tuttavia, queste riforme hanno cercato di ridurre la “trappola della povertà”, potenziando e riorientando gli strumenti di welfare, non cancellandoli. La politica che Blair ha definito back to work, ha preso due strade: 1) gli uffici per l’impiego sono diventati più efficienti e più pressanti; 2) i sussidi hanno cominciato a integrare il reddito da lavoro per la parte mancante rispetto a un minimo salariale. Lo stesso ha fatto Schröder.
Ma Schröder non ha perso le elezioni a causa di queste riforme?
Sì. Ma le critiche più radicali da sinistra contro Hartz IV, non nascono, come si crede in Italia, a causa dei sussidi, bensì dalla pressione che i centri possono esercitare nei confronti dei beneficiari di sussidi, che devono essere costantemente reperibili, devono accettare, dopo lunghi periodi di disoccupazione, delle offerte anche non del tutto coerenti con le loro qualifiche ecc.
D’accordo, ma in che senso l’integrazione del reddito riduce la trappola della povertà?
Godere di un reddito minimo può essere economicamente più conveniente rispetto a lavori poco qualificati e dunque poco retribuiti. Le riforme prevedono così un incentivo economico per il ritorno al lavoro. Su questa premessa, nel 2009, è stato riformato in Francia il Revenu minimum d’insertion (RMI) , varato nel 1988: il nuovo Revenu de solidarité active (RAS) permette un’integrazione del reddito da lavoro. Anche la riforma dei Minijob tedeschi nasce da questa idea: possono sommarsi al “sussidio di disoccupazione”.
Che rapporto hanno queste forme di welfare con la flexsecurity danese?
La flexsecurity danese è un nuovo patto sociale: più flessibilità, ma in sicurezza. Il vecchio sistema, equiparabile a quello degli altri paesi, è stato sostituito estendendo il trasferimento monetario calcolato in percentuale sul reddito perduto, per un periodo lungo, tre o quattro anni. Quindi la flessibilità viene ripagata da un reddito che continua ad essere relativamente alto.
Sono queste le forme di welfare che sono state bocciate da un referendum in Svizzera e la cui sperimentazione è fallita in Finlandia?
No. Referendum ed esperimenti riguardano il Basic Income, l’ipotesi avveniristica di reddito garantito incondizionato per tutti, ricchi e poveri, occupati, disoccupati.
Che cosa è allora il Basic Income, qual è la sua storia e fattibilità?
Mentre il reddito minimo condizionato nasce dal Report di Beveridge (1942) e viene adottato dai laburisti inglesi nel 1948, il Basic Income è la proposta del filosofo ed economista belga Philippe van Parijs (qui in un Ted). La sua proposta ha avuto un grande successo. Van Parijs è stato via via chiamato ad insegnare in molte prestigiose università, tra le quali Harvard dopo la morte di John Rawls, e ha dato vita al movimento mondiale BIN. Nel 2017 Philippe van Parijs ha tenuto una lezione magistrale a Bologna alla presenza di mezzo establishment economico italiano: Prodi, Visco, Saccomanni.
Per riportare le persone al lavoro, dice van Parijs, bisogna seguire una strada opposta a quella dell’aumento del controllo previsto dalle riforme. Il sussidio di disoccupazione presuppone dei disoccupati; per van Parijs, invece, tutti (ricchi, poveri, occupati o disoccupati), dovrebbero avere una dotazione economica. Le persone verrebbero così di fatto incentivate dal sistema di welfare a sommare alla base fissa un reddito addizionale da lavoro.
La sostenibilità di questo sistema verrebbe, secondo la teoria, da due aspetti: i risparmi sugli enormi costi della burocrazia che controlla i disoccupati e da un meccanismo di tassazione che ricorda l’imposta negativa di Friedman. In breve: tutti – ricchi, poveri, occupati, disoccupati – otterrebbero un certo reddito mensile pari, ad esempio, a 500 euro; ma a coloro che si trovano sopra una certa soglia di reddito verrebbe imposta una uguale tassa mensile di 500 euro. Dunque, a ben vedere, il reddito è formalmente universale, ma di fatto non è dato a tutti. Il vantaggio di questo meccanismo starebbe nel ridurre lo stigma sociale.
Vero è però che il Basic Income verrebbe percepito anche da chi non ha alcuna intenzione di lavorare. Ma è qui la scommessa teorica più coraggiosa di questa teoria: la garanzia di un basic income – argomenta van Parijs – spingerebbe le persone ad attivarsi. Non solo perché, se lavorassero, non perderebbero la dotazione economica, avendo così un incentivo economico a trarre vantaggi da un reddito più alto; ma anche perché utilizzerebbero questa dotazione in denaro per la loro carriera lavorativa. Le persone potrebbero inoltre dedicarsi ad attività che oggi non sono abbastanza remunerative, ma che, con l’aggiunta di un reddito di base, potrebbero essere svolte utilmente a beneficio della collettività.
Il Basic Income di van Parijs radicalizza un aspetto già presente del welfare nord europeo. Invece di sussidiare i poveri, l’idea è quella di una dotazione economica individuale da investire nel proprio futuro, per creare ricchezza. Più estrema, ma rende l’idea di questa filosofia, l’ipotesi di dotare le persone fin dalla nascita di un piccolo capitale versato una volta sola invece di una dotazione mensile.
L’Italia si può permettere il welfare degli altri paesi europei?
Il punto non è la spesa, che non sarebbe significativamente diversa da quella di altri paesi europei, ma la composizione della spesa. Il welfare italiano spende molto di più degli altri paesi europei in pensioni.

La riforma del welfare in senso pro-attivo nord-europeo si è sempre scontra con mille resistenze corporative e culturali. L’Italia ha sempre protetto (male, in modo controproducente) chi ha un lavoro regolare, lasciando alla deriva chi invece è precario. A fronte di una precarietà molto significativa, non c’è mai stata una vera rete universale che costituisca un punto di riferimento certo, soprattutto per i giovani. La cassa integrazione è un esempio palese di cattivo welfare: ingessa per anni un’occupazione fasulla con una serie di distorsioni.
La pentola dunque doveva esplodere, ma è difficile capire dove si arriverà. Se siamo riusciti a dare lo spirito di questi strumenti è probabile che si avverta il timore della facile traduzione populistica o assistenzialistica che questi strumenti potrebbero subire. L’Italia si trova in un momento di passaggio. È finita la retorica sull’Europa che trovava tutti d’accordo, perché era solo retorica. Proprio perché siamo più interconnessi con gli altri paesi europei, sono cresciute le critiche verso l’Europa, come nell’immagine dei ricci di Isaiah Berlin, che quando si avvicinano, si pungono. Il welfare è un esempio. La sinistra italiana è stata aggirata sul lato scoperto del suo (debole) europeismo, ma in senso populistico, e per andare contro l’europeismo.
Ma in ogni caso, siamo ben lontani dallo spirito del modello sociale europeo, che non prevede “carte bancomat di cittadinanza”, divieti di risparmio, spese morali o “italiane”, che – tra le altre cose criticabili – creano stigma sociale (come del resto lo creano i programmi di integrazione degli esclusi, gli assistenti sociali ecc.). Il presupposto è un contesto di innovazione e di apertura ai mercati, e non già il “sovranismo autarchico” e l'”abolizione della povertà” attraverso la spartizione di un bottino di guerra.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 17 ottobre 2018

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