Riace, una periferia al centro del mondo

26 Ottobre 2018 /

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di Nicola Fiorita
La vicenda giudiziaria che riguarda Mimmo Lucano ha compiuto un piccolo passo in avanti con la decisione del Tribunale del Riesame che ne ha revocato gli arresti domiciliari e ha disposto, come è noto, il divieto di dimora a Riace. In attesa di leggere le motivazioni del provvedimento, si possono solo fissare degli appunti a margine, utili più come griglie di lettura che come veri e propri elementi di valutazione sul terreno processuale.
Il ridimensionamento dell’impianto accusatorio iniziale, già ampiamente segnalato da molti commentatori, è evidentemente confermato da questo secondo provvedimento. Già prima, l’ordinanza del Gip di Locri lasciava sul terreno solo due delle numerose accuse rivolte a Lucano. Quella di favoreggiamento dell’immigrazione, inevitabilmente destinata a sgonfiarsi, riguardando solo un matrimonio suggerito e nemmeno celebrato, e quella più seria relativa all’affidamento del servizio di raccolta differenziata a due cooperative in ipotesi prive dei requisiti richiesti.
Se certamente tale servizio deve essere ricondotto alle proporzioni proprie di un piccolo paese della Locride e se altrettanto certamente potrebbe notarsi che le indagini compiute – per impiego di risorse, personale e per la loro lunghezza – appaiono del tutto sproporzionate al tipo di reato contestato, quello che ora più colpisce è la “fuga” dall’inchiesta del Procuratore capo di Locri, il quale dopo aver annunciato con un lungo comunicato stampa l’arresto del sindaco di Riace si è progressivamente smarcato dal suo ruolo di protagonista e ha affidato a un giovanissimo pubblico ministero, di prima nomina e da poco a Locri, il compito di rappresentare l’accusa davanti al Tribunale del Riesame.

Ma il profilo giudiziario non pare davvero quello più rilevante della vicenda, se non altro perché una condanna o l’assoluzione di Lucano per un reato minore, e periferico rispetto alle politiche di accoglienza, poco direbbero in ordine al valore simbolico e umanitario di Riace. In sostanza, se si inscrive la vicenda di Mimmo Lucano dentro un perimetro esclusivamente giudiziario o politico non si può comprendere quello che è accaduto in questi anni a Riace e quello che oggi questo paese dice al mondo.
Riace ha rappresentato un modello di gestione dell’immigrazione basato sull’accoglienza diffusa, alternativo alle politiche di respingimento ma alternativo anche all’accoglienza dei grandi numeri, cioè dei tanti soldi e della troppa burocrazia. Un modello che prometteva di salvare non solo chi veniva accolto ma anche chi accoglieva, perché l’arrivo dei migranti ripopolava i borghi interni in via di abbandono, consentiva di riaprire le scuole come gli uffici postali e restituiva il futuro a comunità vecchie e impoverite.
Da questo punto di vista, Riace non ha vinto e la retorica che ne ha accompagnato la difesa va almeno parzialmente ridimensionata, dovendosi ammettere come questo modello non abbia raggiunto quella sostenibilità economica necessaria a stabilizzare il ripopolamento dei paesi, con il serio rischio che la promessa di un futuro migliore per quei borghi sia solo effimera, passeggera, dipendente da politiche di sussistenza non diverse da quelle che ne garantivano la vita negli anni felici della spesa pubblica senza controllo. Ma Riace ha vinto, e può presentarsi come modello virtuoso, sotto un altro profilo, che potremmo definire della sostenibilità umana, perché in quel paese – come forse in nessun altro luogo del pianeta – la parte che accoglie e la parte che viene accolta si sono fuse in una unica, indistinta e nuova comunità.
A chi le ha percorse, le viuzze strette di quel piccolo centro storico comunicano chiaramente che quella comunità non sa che farsene delle politiche dei flussi, delle quote, della convenzione di Dublino, dei decreti sicurezza e nemmeno delle verità giudiziarie che possano emergere da inchieste e ordinanze, perché ben oltre tutto ciò sta l’incontro delle vite, lo scambio di umanità, la condivisione di un unico destino.
È solo questo il miracolo di Riace, è soprattutto questo che Riace può dire al mondo. Essere un luogo riconoscibile dove l’umanità prevale sul denaro, dove sicurezza significa prendersi cura, dove la globalizzazione dell’indifferenza denunciata da papa Francesco cede il passo davanti a una comunità di persone che si riconoscono come esseri umani, fratelli e sorelle di una stessa famiglia.
E in questa prospettiva Mimmo Lucano appare effettivamente per quello che è: non certo il frutto tardivo del secolare ribellismo meridionale, né l’esponente di un universo naif, refrattario alle regole e indifferente alla modernità, quanto piuttosto l’epigono calabrese di quella cultura della pace e della fratellanza che tanti grandi interpreti trovò anche nella nostra Nazione.
E che oggi si manifesta in un piccolo centro calabrese che reca nel proprio Dna lo spirito dell’accoglienza, con i suoi medici siriani Cosma e Damiano che ne sono protettori e con la grande festa patronale che mischia da sempre popolazione locale e rom dell’intera regione, superstizione e religiosità popolare, diversità e tradizione.
Riace non è un modello vincente, i suoi 1.800 abitanti sono simili – tranne che per il colore della pelle – ai 1.800 abitanti del 1961. Oggi come ieri è un paese lontano dal resto del mondo, povero e marginale. Ma la sua capacità di resistenza, il suo vigore umanitario e la sua testarda indifferenza ai piani strutturali e alle procedure burocratiche ne fanno un caso unico.
E un esempio prezioso in una regione, la Calabria, che resta povera, marginale e isolata anche a fronte di decenni di investimenti, promesse e inaugurazioni. E se nel frattempo è diventato raro trovare qualcuno che abbia interesse e forza per restituire la Calabria all’Italia, Riace sembra voler restituire la Calabria ai calabresi, costruendo una strada alternativa alla visione (alla Farinetti o alla Briatore) di un grande Club Med o alla visione (alla Salvini) di una terra per vecchi, buen retiro per i pensionati veneti, lombardi o stranieri.
E non può essere sottovalutato che proprio le esperienze più originali in corso in Calabria siano finite sotto l’attenzione della magistratura e delle prefetture, che tra scioglimenti di comuni, interdittive antimafia e inchieste, che pur si sbriciolano rapidamente, stanno affossando coloro che cercano alternative praticabili ad un presente in cui spesa pubblica non significa sviluppo, legalità non significa contrasto alle mafie, politiche giovanili non significano niente.
Gioacchino Criaco, l’autore di Anime nere, ha scritto in questi mesi parole bellissime per salvare dalla chiusura le scuole di Roccaforte del Greco e Careri, piccoli centri aspromontani, che avrebbe costretto molti ragazzi ad abbandonare il proprio percorso di formazione e a cominciare a preparare le proprie valigie.
“La prima lezione che possiamo dare ai nostri ragazzi è che le decisioni ingiuste non vanno rispettate. La prima lezione che dobbiamo dare a noi stessi è che il principio della responsabilità viene prima di ogni altro, e prima degli altri chi subisce l’ingiustizia è responsabile dell’ingiustizia” scrive Criaco. Da piccoli e remoti luoghi dell’ultimo lembo di terra dell’Europa occidentale riemerge la convinzione che esista un diritto degli uomini di restare nella propria terra o di andare in qualunque altra terra per cercare la propria salvezza. E che assumere la responsabilità di questo diritto valga la nostra esistenza, ne certifichi la qualità e la dignità. Se L’Italia e l’Europa sapranno o vorranno fare i conti con questo principio non ci è dato sapere, ma è evidentemente questa e solo questa – e non certo la vicenda delle cooperative o la green card in salsa jonica- l’essenza della questione Riace.
Questo articolo è stato pubblicato dalla Rivista il Mulino il 22 ottobre 2018

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