America Latina: alle origini del rischio neo-liberista e classista

22 Ottobre 2018 /

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di Maurizio Matteuzzi
A pochi giorni da una tragedia annunciata – la probabilissima vittoria del fascista Jair Bolsonaro nel ballottaggio del 28 ottobre per la presidenza del Brasile – vale la pena ricordare, se non altro per cercare di capire dove e cosa si è sbagliato. E ripartire, chissà dove e chissà quando. Ricordare che vent’anni fa, nel dicembre del ’98, nel Venezuela – il “Venezuela Saudita” dall’immensa ricchezza petrolifera devastato dalla crisi economica, politica e sociale – veniva eletto presidente della repubblica l’ex-tenente colonnello Hugo Chávez Frias. Sembrava uno dei tanti caudillos di cui è ricca la storia dell’America Latina. Un personaggio che allora appariva ideologicamente ambiguo e un po’ folclorico, tutto da scoprire.
Invece era l’inizio di una nuova era, di un ciclo politico come amano dire i sociologi. Un’era che combinata con un ciclo economico favorevole avrebbe prodotto a macchia d’olio quasi un ventennio di governi di sinistra, o quanto meno progressisti, e avrebbe fatto parlare di “rinascita” dell’America Latina dopo la stagione infame delle dittature militari pilotate dagli USA e delle tante “decadi perdute” – gli anni ’70, gli ’80, i ’90 – sotto il tallone del “Consenso di Washington” (e dell’FMI, della Banca Mondiale, del neo-liberismo sfrenato).
Fino ad allora il “Consenso di Washington” era il vangelo che nessun paese del “cortile di casa” si poteva azzardare a mettere in discussione. Così era stato nel ’94 per l’entrata del Messico di Carlos Salinas de Gortari nel Nafta, l’accordo di libero scambio con USA e Canada; nel ‘91 per la Ley de Convertibilidad che parificava il peso con il dollaro nell’Argentina di Carlos Menem; nel ’94 con il Plano Real che stabilizzava l’economia agganciandone la moneta al dollaro nel Brasile del ministro delle finanze e poi presidente Fernando Henrique Cardoso (il famoso sociologo che in altri tempi aveva sviscerato i meccanismi perversi dello scambio ineguale nella “Teoria della dipendenza”…).

Ma sul finire del secolo la festa di quell’America Latina sembrava finita. Rovinosamente. L'”effetto tequila” – la svalutazione improvvisa del peso – aveva portato il Messico di Salinas al default già nel ’94; il Brasile fra la fine del ’98 e l’inizio del ’99 aveva dovuto svalutare il real del 50% (l'”effetto caipirinha” dopo che Cardoso aveva negato ostinatamente qualsiasi ricasco della crisi delle Tigri asiatiche e della Russia per poter essere rieletto: una mossa criminale al cui confronto le “pedalate fiscali”, ossia i trucchi contabili di bilancio che sono serviti per l’ impeachment e il golpe soft contro Dilma Russeff nel 2016, appaiono giochetti da bambini); l’Argentina menemista della “pizza con champagne”per tutti grazie alla parità peso-dollaro era esplosa, anzi implosa, nel 2001 con la più drammatica crisi nella storia del paese e le dimissioni con fuga notturna in elicottero del successore di Menem, Fernando de la Rúa.
I numeri provavano che le ultime tre decadi di “Consenso di Washington” erano state fallimentari, “perdute”. Negli anni ’70, quelli più feroci e ancora con i militari a fare da cani da guardia agli interessi USA, il PIL della regione era al 5.6% e il PIL pro capite al 3%; negli anni ’80 il PIL all’1.4% e il PIL pro capite a meno 1.1%; negli anni ’90 il PIL al 2.7%. Metà della popolazione latino-americana era sotto la soglia della povertà.
Sul finire del secolo l’America Latina del “Consenso di Washington” celebrava ancora i suoi riti sempre più vuoti. Nell’aprile del ’98 il secondo Summit delle Americhe – tutti i 34 presidenti con Cuba come sempre esclusa (sarebbe stata ammessa alla “Cumbre” di Panama nel 2015) – lanciava a Santiago del Cile una “Dichiarazione di principi” e un “Piano di azione” in 27 punti di cui a parte i bla-bla-bla sulle politiche sociali, la qualità della democrazia, il rispetto dei diritti umani, l’istruzione come chiave del progresso, solo uno contava davvero: la realizzazione dell’ALCA, l’Area di libero scambio delle Americhe, che il presidente Bill Clinton e i suoi colleghi volevano si concretizzasse entro il 2005. E che invece fu clamorosamente affondato nella “Cumbre” di quell’anno, a Mar del Plata in Argentina, quando il vento e i commensali erano cambiati.
Dopo l’irruzione di Chávez del ’98, grazie anche al suo protagonismo sfrenato (e generoso), alla sua spinta verso l’integrazione “bolivariana” del subcontinente, ai suoi petro-dollari, il quadro dell’America Latina cambiò rapidamente e radicalmente. Con l’ingresso del XXI secolo, nella prima decade del 2000, la gran parte dei paesi della regione poteva definirsi di sinistra o progressista. Quasi unica eccezione, il Messico che il NAFTA e il narcotraffico avevano reso la triste appendice meridionale degli Stati Uniti, nonostante la clamorosa irruzione sulla scena politica e mediatica, l’1 gennaio 1994 nel Chiapas, degli indios zapatisti del sub-comandante Marcos.
Ma anche in Messico era arrivato il vento del cambiamento pur soffiando a destra anziché a sinistra e dopo 71 anni di “democrazia a partito unico” o di “dittatura perfetta”, il PRI, Partito Rivoluzionario Istituzionale (un ossimoro), era stato scalzato dal PAN, Partito di Azione Nazionale, la destra cattolico-liberista, che aveva vinto le elezioni e insediato il suo candidato Vicente Fox, l’1 dicembre del 2000, al palazzo presidenziale di Los Pinos.
Ma nel resto dell’America Latina la musica era un’altra. Chávez in Venezuela; Lula da Silva e poi Dilma Rousseff in Brasile; Néstor Kirchner e poi dopo la sua morte Cristina Fernández in Argentina; Tabaré Vázquez e poi Pepe Mujica in Uruguay; l’indio aymara Evo Morales in Bolivia (con un altro presidente liberista costretto a fuggire nottetempo in elicottero: Gonzálo Sánchez de Lozada, nel 2003, dopo “la guerra dell’acqua” a Cochabamba e “la guerra del gas”); Rafael Correa in Ecuador; i pur moderatissimi socialisti Ricardo Lagos e Michelle Bachelet in Cile; il “vescovo rosso” Fernando Lugo in Paraguay anche se presto rimosso da un golpe soft parlamentare nel 2012. Poi c’era sempre Cuba, inamovibile, immarcescibile seppur impegnata in una transizione non facile, al di là delle apparenze, da Fidel a Raúl e, soprattutto, dal “fidelismo” al “raulismo”.
Un vento che era arrivato perfino in America Centrale, ripiombata, dopo il tempo delle eclatanti guerriglie rivoluzionarie, nei 500 anni di silenzio precedenti: in Honduras Manuel Zelaya (nulla più che un liberale ma troppo amico di Chávez), rovesciato nel 2009 da un golpe pilotato dal segretario di stato USA Hillary Clinton; nel Salvador Mauricio Funes e poi Salvador Sànchez Cerén, espressione dell’ FMLN, il Fronte Farabundo Martí di Liberazione Nazionale. E forse era arrivato anche nella derelitta Haiti, con Jean-Bertrand Aristide, “il prete dei poveri” finito male, e René Préval. (Un velo pietoso sul Nicaragua della coppia Daniel Ortega-Rosario Murillo.)
Il decennio della “rinascita” ha conseguito progressi importanti, alcuni clamorosi, in ambito sociale e avviato processi accelerati di integrazione latino-americana (ALBA, CELAC, UNASUR, PetroCaribe…) e più generalmente sud-sud, favorito dagli alti prezzi delle commodities agricole ed energetiche, e dalla spinta cinese. Fra il 2000 e il 2009 il commercio fra la Cina e l’America Latina è cresciuto del 1200%, da 10 a 130 miliardi di dollari, fino a 241 miliardi nel 2011.
Ma quel percorso ha iniziato a incepparsi quello stesso anno, quando gli effetti della crisi globale del 2008 sono arrivati in America Latina e le quotazioni delle materie prime minerarie e agricole sono cadute, seguite nel 2014 dal petrolio. Le entrate sono diminuite, i bilanci statali sono andati in sofferenza, le politiche redistributive – come le Misiones bolivariane in Venezuela o i programmi Fome Zero e Bolsa Familia in Brasile – sono state ridimensionate creando un inevitabile malcontento popolare e ripercussioni politiche (povertà, disoccupazione, delinquenza), aggravate dall’evidenza di una corruzione diffusa e, a livello psicologico, da un odio di classe che resta una costante inestinguibile in America Latina, eredità del suo passato coloniale (solo un dato: con Lula al governo le banche e l’establishment capitalista non ha mai fatto tanti profitti, eppure…).
La morte di Chávez, nel 2013, è stata un altro colpo durissimo, lasciando l’America Latina orfana del suo più entusiasta e prodigo sostenitore, e il Venezuela sprofondato in una deriva tragica che i suoi successori Nicolás Maduro e Diosdado Caballo non riescono a governare.
Nella seconda decade del 2000 le tre principali economie del Cono Sud – Brasile, Argentina e Venezuela sono andati in recessione, da cui sono uscite nel 2017 ma a stento e in misura insufficiente (l’economia latino-americana ha fatto segnare un più 1.3% nel 2017 ed era previsto un più 2% nel 2018).
Ma il rischio, sotto gli occhi di tutti, è il ritorno in forze della destra neo-liberista, classista ed escludente, e, con Bolsonaro, anche apertamente fascista, riportando la situazione indietro di due o tre decenni. Oggi le facce che si vedono sono quelle dei Mauricio Macri in Argentina, dei Michel Temer e Jair Bolsonaro in Brasile, dei Sebastián Piñeira in Cile, dei Lenin Moreno in Ecuador (absit iniuria nominis), della rancida destra di sempre in Paraguay e Honduras. Con il Messico di Andrés Manuel López Obrador, che al terzo tentativo ha vinto le elezioni del 2018 alla testa del suo MORENA, Movimento di Rigenerazione Nazionale, ancora una volta in controtendenza (forse).
Dove si è sbagliato? Cosa si è sbagliato? Risposta difficile. Come dice il vicepresidente boliviano Álvaro García Linera, 15 anni di governi progressisti hanno prodotto risultati tangibili: riduzione della povertà da 210 milioni di persone nel 2000 a 140 milioni nel 2015, crescita di una classe media e delle entrate dei lavoratori fra il 10 e il 15%, della spesa sociale del 10%. Ma non è bastato per impedire o frenare il ritorno rabbioso, vendicativo della vecchia-nuova destra.
Perché? Questi 15 anni, per ora, inducono due considerazioni su cui riflettere. Da un lato i governi progressisti hanno mostrato che pur ripudiando (o contenendo) il mercato capitalista quale unica entità regolatrice e adottando alcune politiche sociali a partire dallo stato, è possibile migliorare la vita e includere milioni di esclusi migliorando allo stesso tempo anche l’attività economica. Dall’altro i governi progressisti non hanno saputo o voluto intaccare l’essenza del sistema capitalista, né della struttura produttiva, né del potere di media generalmente ostili, né del ruolo storico di fornitori di materie prime sul mercato mondiale: dopo 15 anni di governi progressisti, i paesi dell’America Latina continuano ad essere esportatori di materie prime, con economie capitaliste controllate da elite oligarchiche, con classi lavoratrici in cui prevalgono i bassi salari, la precarietà, l’informalità e la disoccupazione, con gli inevitabili effetti collaterali: povertà, bassa qualità dei servizi, della sanità, dell’istruzione, incremento della violenza.
Il primo quindicennio del XXI secolo è stato virtuoso ma non è bastato e non ha cambiato il format classico dei paesi dell’America Latina: il modello estrattivista. E adesso bisogna ricominciare. Chissà dove, chissà quando.

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