Il premier Conte e i concorsi universitari: l'ordine è quello di smorzare i toni

10 Ottobre 2018 /

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di Alessandra Maltoni
L’Italia è un groviglio di inchieste, e non bastano leggi, direttive o linee guida come quelle introdotte recentemente dal giudice dell’anticorruzione Raffaele Cantone che per sanare e correggere un’amministrazione pubblica tenacemente “indisciplinata” ha inasprito giustamente i toni. Ognuno di noi se decide di partecipare a un concorso pubblico sa a prescindere che, teoricamente, non potrà sussistere alcun rapporto di interessi tra chi lo giudicherà e tutti coloro che come lui saranno giudicati. Sappiamo che sono vietati i rapporti d’affari, di lavoro, di “coniugio” tra selezionatori e selezionati.
E invece a volte capita di vedere che giudicante e giudicato condividano le stesse pratiche d’ufficio per poi ritrovarsi anche alla prova concorsuale come coprotagonisti, ma seduti dalla parte opposta. Sarà esattamente quel che è capitato al premier Conte quando si vide arrivare come membro di commissione giudicante il professor Guido Alpa, con cui aveva pochi giorni prima condiviso “quanto meno” una prestigiosa causa in tribunale. Ma in gioco per lui c’era pure la prestigiosa cattedra di diritto privato. In teoria per buon uso non avrebbero neppure vedersi per un caffè.
Bene ha fatto il presidente Cantone, scoppiata la polemica, a sottolineare che il conflitto di interesse si ravvisa soltanto in presenza di affari e interessi economici ben comprovati e che non basta ai fini giuridici la comune gestione di rilievo meramente procedurale per pratiche di studio. Ma se la norma giuridica non è violata, quella di opportunità si che lo è. Siamo in un terreno politicamente scivoloso.

Gli interessati a una cattedra da professore ordinario in settore disciplinare legato al diritto, dovrebbero ben conoscere meglio degli altri queste regole. Dovrebbero sapere che non si possono avere “affari in comune” se poi ci si trova casualmente coinvolti nella stessa selezione di reclutamento per la docenza.
Questo però forse vale solo per chi al solito ingenuamente partecipa ai concorsi pensando che la legalità sia il principio cardine di un sistema “illuminato” dalla legge. È ovvio che le regole di legge o di merito non valgono per tutti alla stessa maniera. Quel concorso cui ha partecipato l’attuale premier non aveva le caratteristiche di scelta opportuna in ambito formazione della commissione.
La scelta non ha garantito la dovuta imparzialità a tutti i candidati ma nessuno se ne è accorto, né lo ha mai denunciato. Entrambi gli avvocati avevano condiviso per lavoro una “costituzione di parte” in giudizio, depositata sessanta giorni prima della selezione concorsuale. I due colleghi si sono poi trovati l”uno seduto di fronte all’altro e tutto in quell’Ateneo è sembrato normale. La prassi. E già la prova che quella selezione e “alterata”.
E i giustizialisti di Maio e Bonafé, sempre attenti alle regole, coinvolti mediaticamente, perché non si pronunciano? I due politici che più di altri hanno proposto e ostinatamente rivendicato il cambiamento stanno in silenzio di fronte a vecchie, solite, impopolari abitudini, in cui il “rigore” anche in astratto è sempre l’ultimo dei pensieri.
Hanno forse “addolcito” i soliti toni da stadio perché il “loro” premier è esente da vizi e scelto da loro, proprio perché si è posto come colui che vuol “difendere” l’Italia con correttezza e giustizia morale, contrastando con forza corruzione e casta. E di quel presunto e sfumato possibile “contrasto” tra interessi in un concorso, il suo concorso, nessuno parla. La politica di riferimento tace, il suo Ateneo pure.
Forse quest’ultimo evitando ben più pesanti situazioni potrebbe annullare quel concorso spontaneamente, agendo in piena autotutela come spesso fanno gli Atenei per molto meno. Se il premier fosse d’accordo darebbero tutti insieme prova di buon esempio. L’Ateneo potrebbe sanare questa incresciosa situazione visto che attorno a questo concorso, diventato ormai tutt’a un tratto celebre, si evidenzia un sistema che il capo di un governo non può far accettare e consolidare col suo atteggiamento come abituale.
Anche se “a posteriori” è emerso infatti un vizio di costume, figlio e genitore delle solite vecchie abitudini. Rimettendo a bando quel posto l’Università dimostrerebbe di voler ripristinare la legalità, o almeno il vago senso di essa, dimostrando che carriera politica e istituzioni si muovono, a prescindere dalla temporalità o dalle norme di legittimità che impongono per forza ripensamenti.
Darebbe prova di muoversi attorno agli stessi principi che ispirano l’Amministrazione Pubblica e il suo agire, ovvero la coerenza e la correttezza, legate tra loro da un’ imprescindibile trasparenza che non è solo quella scritta sui libri da vendere.
Il premier potrebbe sbalordire tutti scegliendo di dimettersi da capo del governo e tornarsene alla tranquilla e consuetudinaria vita d’Ateneo, dove i “vizi” spesso non sono un problema ma solo a volte e casualmente lo diventano, oppure innovare il sistema e rinunciare lui stesso a quella datata chiamata in cattedra chiedendo magari un nuovo concorso più imparziale, con commissari esterni alle sue pratiche d’ufficio. Potrebbe in questo modo continuare a cavalvare in modo più credibile quel populismo che lo ha “incoronato” premier, fino al punto di accettarne un educativo e imperioso rigore anche “a effetti retroattivi” che affascinerebbe i tanti italiani stanchi del vecchio sistema. Un rigore rivoluzionario che molti cittadini ammirerebbero e che diventerebbe sicuramente un gesto esemplare.

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