di Mauro Grimoldi
Non sembra certo essere questo il migliore dei mondi possibili secondo il neo senatore promoter dei Family day Simone Pillon. Nelle scuole italiane trova sempre qualcuno di troppo che racconta favole di streghe ai bambini, succede che alcune gravidanze indesiderate vengono interrotte e anche che talvolta qualcuno si innamori di una persona dello stesso sesso e reclami il diritto all’uguaglianza. Tutte brutte faccende per lui, di cui si sta alacremente occupando da quando è iniziato il suo mandato, stregoneria inclusa.
In più, suo recente cruccio, i matrimoni in Italia non sono indissolubili dal referendum sul divorzio del 1974. Un po’ come in tutti gli altri paesi occidentali. Senza più troppa fede in un Dio che unisce ciò che l’uomo non può dividere, nel corso degli ultimi vent’anni sia le separazioni che i divorzi sono più che raddoppiati. Così ecco comparire, gocciolante di limpida acqua di fonte battesimale il ddl Pillon, ambiziosamente destinato a risolvere tutte le sperequazioni dell’odierno diritto di famiglia “rimettendo al centro la famiglia e i genitori”.
Punti essenziali, tempi di collocamento paritari tra papà e mamme dopo una separazione, mantenimento in forma diretta dei figli cercando di evitare gli assegni di mantenimento e contrasto di tutte quelle situazioni in cui i figli rifiutino di incontrare uno dei genitori. Il tutto confezionato con l’ambiziosa etichetta di “bigenitorialità perfetta”. Leggendo un po’ meglio, tuttavia, ci si accorge che la perfezione è in effetti attributo non umano.
Mescolando un po’ nel calderone stregonesco responsabilità genitoriale, affidamento e collocamento dei figli, Pillon ci racconta che la norma che prevede l’affidamento condiviso in Italia dal 2006 ha fallito. Ma i dati Istat lo contraddicono: gli affidamenti condivisi sono passati da meno del 20% nel 2005 prima della legge all’89% del dopo legge 54. Una misura importante, visto che l’affidamento ha a che fare con la responsabilità delle decisioni ordinarie e straordinarie sulla vita dei propri figli, che i genitori devono ora prendere insieme nella quasi totalità dei casi.
Il collocamento dei bambini, che non riguarda la responsabilità delle scelte ma dove un bambino debba stare, è però altra faccenda. Spesso, è vero, il giudice decide di consentire ai bambini, che non hanno colpa delle decisioni dei genitori, di continuare a vivere nella casa in cui hanno vissuto. I genitori dopo la separazione se ne prendono cura in modo e con tempi che vengono valutati di caso in caso sulla base dell’investimento dei genitori sul ruolo genitoriale e delle effettive disponibilità di tempo. La situazione piuttosto frequente del prevalente collocamento dei figli presso la madre non è conseguenza di una preferenza ideologica, ma del tessuto sociale italiano in cui i ruoli culturali, sociali e lavorativi tra uomo e donna sono tuttora lontani dall’uguaglianza. I dati sono ancora una volta chiari: in Italia la nascita di un figlio raddoppia il divario occupazionale tra uomini e donne, e se i figli sono più di uno la forbice si allarga ulteriormente. Non significa che non vi siano papà dediti all’accudimento dei propri figli, ma che la realtà va valutata guardando in faccia ogni bambino e la realtà di ogni famiglia anche dopo una separazione.
Viceversa imporre “d’ufficio” un’unica soluzione di collocamento rischia di essere un errore. Non di rado, nei fumi del conflitto di una separazione conflittuale il collocamento dei bambini diventa oggetto di disputa, si “vince” se si ha il bambino di più, salvo poi parcheggiarlo da nonne o tate se l’orario in ufficio va ben oltre quello in cui risuona la campanella della scuola. In questi casi, ogni Giudice agisce sulla base della migliore delle scelte possibili, che è quella che tiene al centro l’interesse dei bambini.
Senza togliere niente a nessuno, visto che per fortuna essere genitori è inoltre qualcosa di straordinariamente complesso. Certamente si deve avere un tempo da vivere con i propri figli, ma anche chi vive una relazione matrimoniale intonsa sa che si può essere eccellenti genitori anche svolgendo un lavoro impegnativo, che costringe ad assenze frequenti come anche, se il matrimonio è naufragato, senza necessariamente dover pretendere di veder rimbalzare i bambini tra le nuove case del papà e della mamma per garantire la “bigenitorialità perfetta” secondo Pillon.
L’economia del tempo e del denaro rimane relativamente indifferente a cosa realmente significhi essere padri, madri e figli dopo una separazione.
E a proposito dei grandi assenti in questo ddl, anche la crociata di Pillon contro l’alienazione genitoriale sa di ideologia. Nei casi in cui i bambini rifiutano uno dei genitori si prevedono anche misure estreme, quasi coercitive, di “contrasto” appunto. Ma che dire dei motivi? Vi sono casi di trascuratezza, di violenza domestica subita o anche solo assistita, di abuso, anche sessuale. Non sono casi infrequenti, e non si può mescolare ancora il calderone. Non tutto è alienazione, le madri non sono tutte malevoli, e non si può costringere un bambino ad andare a vivere da un padre violento o abusante perché il bambino – talora ben giustamente – lo rifiuta. Lo stesso Richard Gardner, l'”inventore” del concetto di alienazione genitoriale aveva ben specificato che si può parlare di alienazione solo nei casi in cui non vi siano elementi obiettivi che giustificano l’estraniazione dei bambini nei confronti del genitore. La genitorialità è una competenza, non un dato incontrovertibile e prevede anzitutto il dovere di fornire ai propri figli un ambiente sicuro.
Certamente, con l’attenzione che dimostra per il tema dell’assegnazione della casa coniugale, del mantenimento diretto dei figli e dello strumento della mediazione familiare, assurta al ruolo di professione senza requisiti con un colpo di reni legislativo, il ddl Pillon tradisce il fatto di essere motivato anzitutto da questioni economiche che schiacciano il “maggiore interesse del minore” come principio giuridico sull’economia. Eppure dopo una separazione il rapporto tra donne e uomini che faticano ad arrivare a fine mese aumenta e vede le donne sfavorite in una proporzione quasi doppia, 26,0% contro 14,6%. Per ogni uomo costretto a dormire in auto perché impoverito dalla separazione, ci sarebbero quindi quasi due donne in difficoltà economica altrettanto grave.
Il ddl Pillon, con le sue confusioni, le sue imprecisioni, le sue realtà taciute, suona soprattutto come un’imposizione o un auspicio ideologico. Se l’affidamento condiviso è infatti un principio sacrosanto, il collocamento alternato è solo una delle soluzioni possibili per i figli di una famiglia in fase di separazione, e spesso non è la migliore. La speranza è che prevalga sempre il principio del maggiore interesse del minore anche di fronte alla logica delle maggioranze e che si possa mantenere la capacità di guardare in faccia i bambini con le loro specifiche esigenze concrete, affettive e relazionali.
Questo articolo è stato pubblicato sul FattoQuotidiano.it il 18 settembre 2018