di Eleonora Cirant
L’azienda sanitaria locale stipula una convenzione per l’insediamento di un’associazione cattolica antiabortista nei consultori pubblici e nei reparti ospedalieri di interruzione volontaria di gravidanza, ma un gruppo di associazioni femminili e femministe fa un esposto alla Procura e la convenzione viene revocata con effetto immediato.
È accaduto a Napoli. Era del 14 agosto scorso la delibera n. 1713 con cui Mario Forlenza, Direttore generale dell’Asl Napoli 1, rendeva esecutiva la convenzione stipulata con l’Associazione Parrocchia per la vita, che avrebbe potuto svolgere la propria attività sia nei reparti di interruzione di gravidanza degli Ospedali S. Paolo e Loreto nuovo di Napoli, che nei consultori di competenza.
La Parrocchia per la vita avrebbe fornito gratuitamente alle gestanti «assistenza materiale, morale, psicologica e spirituale, preoccupandosi altresì di estendere il sostegno anche ai bambini sottratti all’interruzione di gravidanza, aiutandoli nel sostentamento e nella crescita». Avrebbe inoltre offerto «aiuto nella individuazione di strumenti, anche finanziari, che possono incentivare in ogni caso la scelta della vita» ed avrebbe operato per la «diffusione della cultura della sepoltura dei prodotti del concepimento in aderenza alla delibera della Giunta regionale n. 108/2012, fornendo ogni opportuna informazione ai genitori ed aiuto, possibilmente anche economico, per la raccolta nel cimitero».
Una novità per il territorio campano che, a differenza di quello lombardo, non conosce la pervasività delle iniziative no-choice in ambito socio-sanitario. Ma a disinnescare la bomba – sganciata, forse non a caso, a ridosso di ferragosto – arrivano l’UDI di Napoli, l’Associazione salute donne, il Comitato 194 e Arcidonna Napoli. Lo fanno all’inizio con un comunicato che attira l’attenzione di una consigliera regionale del Pd, Loredana Raia. La quale si attiva per organizzare un incontro tra le associazioni e Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania eletto con una coalizione di centro-sinistra.
«Gli abbiamo portato un promemoria sugli articoli di legge a rischio di infrazione e dopo due giorni, non avendo ricevuto risposta, siamo andate in Procura a fare l’esposto. A quel punto la convenzione è stata revocata con effetto immediato», spiega Stefania Cantatore, dell’Udi di Napoli. «Come abbiamo scritto nell’esposto, l’intromissione di soggetti diversi dal personale sanitario nei reparti ospedalieri deputati a eseguire gli interventi abortivi costituisce una gravissima violazione del diritto alla privacy delle pazienti, che hanno già valutato le diverse soluzioni per la gravidanza e deciso per l’IVG. Del resto in qualsiasi percorso sanitario la riservatezza è garanzia di tutti i cittadini.
Anche l’ammissione ai consultori di questa associazione, il cui statuto non è stato in alcun modo reperibile, appare come una forma di abuso: infatti la legge 194 già prevede (art.2) che le strutture nominate possano offrire informazioni alle utenti per ottenere sostegno nella maternità e nelle loro decisioni in merito, anche attraverso collaborazioni esterne. Quanto meno, allora, una delibera ad hoc rappresenta una ridondanza superflua e dannosa». Tanto più che dalla pagina Facebook della Parrocchia per la vita, osserva Cantatore, «erano stati tolti post che avevamo però potuto leggere, con virulente affermazioni antiabortiste e denigratorie verso le strutture che applicano la legge 194».
Il 12 settembre arriva quindi dalla Direzione generale la delibera 1825 con cui, considerando «i possibili profili penali per eventuali violazioni in materia di privacy», Mario Forlenza revoca la convezione con effetto immediato. Il documento accoglie anche gli altri punti sollevati dalle associazioni: il richiamo agli articoli 5 e 21 della legge 194; la nota della Corte di Strasburgo che nel 2016 ha raccomandato allo Stato italiano di rimuovere gli ostacoli e i disagi che l’obiezione di coscienza e un’errata applicazione della legge comportano per le donne e il personale non obiettore; l’imposizione di allontanamento esercitata nel 2015 dal Prefetto di Bologna sulle associazioni antiabortiste che presidiavano regolarmente le strutture preposte all’attuazione della legge 194; la sentenza del Tar del Lazio n. 899/16 che respingeva il ricorso contro il cosiddetto “decreto Zingaretti” del 2014, volto all’assunzione di personale non obiettore.
Una lezione da Napoli per le donne che vivono e fanno politica in Lombardia?
Qui nei primi anni duemila il Centro aiuto alla vita (Cav) si è insediato nei locali dell’Ospedale Mangiagalli di Milano, uno dei più importanti in città per numero di parti e centro di riferimento anche per le IVG (interruzione volontaria di gravidanza). Partiva in quel periodo la privatizzazione della sanità lombarda, con il sistema di accreditamento delle strutture private e una legge regionale che esonerava i consultori privati dalle procedure per la legge 194 – l’esonero si è esteso poi ad interi ospedali come il San Raffaele di Milano, dove non c’è un reparto di IVG nonostante si pratichi la diagnostica prenatale. Qui, in Lombardia, tra il 2010 e il 2015 è stato attivo il “Fondo Nasko”, che – come si legge ancora su qualche vecchia pagina istituzionale – alle «future mamme» che rinunciavano alla scelta di interrompere volontariamente la gravidanza offriva «un aiuto economico e di una proposta di progetto di sostegno personalizzato» gestito dai Cav, Centri di aiuto alla vita, «in sinergia» con i consultori pubblici. «Aiuti» come quello ricevuto da Renzo e Lucia, convinti a non abortire dal Cav della Mangiagalli in cambio di una casa da cui sono stati sfrattati poco tempo dopo. Una «truffa» operata dai Cav con una certa regolarità secondo il Comitato abitanti di San Siro che ha denunciato il fatto.
«Nel corso degli anni abbiamo fatto decine di esposti alla Procura – spiega Cantatore. – Lo facciamo quando una donna che vuole abortire viene mandata via dall’ospedale con la motivazione che non ci sono più posti (questa è induzione all’aborto clandestino), o quando chiudono il reparto perché tutto il personale è obiettore, violando la legge». Funziona: i reparti vengono riaperti e le donne, anche solo prefigurando l’esposto, ottengono ragione. «La legge 194 è talmente cogente in tutti i suoi aspetti, sia quello della segretezza che della immediata rispondenza a quella che è la decisione di una donna, che ci consente di rimuovere gli ostacoli. Ad esempio, non serve affatto il certificato del consultorio che attesta lo stato di gravidanza, si può andare direttamente in ospedale e chiedere lì di fare l’accertamento, sono obbligati a farlo». Perché dunque, per fare un esempio, tutti gli ospedali milanesi lo chiedono alle pazienti che si rivolgono al reparto IVG per prenotare l’intervento?
Questo articolo è stato pubblicato da Radio Popolare il 17 settembre 2018