di Benedetto Vecchi
Un recente numero dell’«Internazionale» riproduce un testo originariamente pubblicato dalla rivista «New Statesman» che il giornalista inglese Paul Mason ha dedicato al bicentenario di Marx. Con la chiarezza e semplicità che lo contraddistingue, Mason parte da una foto che ritrae Lev Trockij, sua moglie Natalia Sedova, la sua segretaria Raja Dunaevskaja e Frida Khalo per ripercorrere le vicende di un gruppo di intellettuali marxisti che hanno dovuto fare i conti con la deriva staliniana della Rivoluzione russa.
Trockij, è noto, fu assassinato da un sicario mandato da Stalin; sua moglie passò la vita a maledire l’Unione sovietica, la segretaria si fece carico di raccogliere e preservare gli scritti di Trockij; Frida Khalo, infine, rinnegò la sua vicinanza al dirigente comunista inviso al «piccolo padre» arrivando a tessere un osanna per Stalin. Nessun di loro era una «mammoletta», sostiene Mason. Per la rivoluzione avrebbero rinnegato, se necessario, come era accaduto nella loro esperienza militante, l’«umanesimo radicale» presente nei testi marxiani, a partire da quei manoscritti economici filosofici del 1844 che ancora non era stati pubblicati. Se c’è una qualche eredità di Marx da riprendere in mano, conclude Paul Mason, quella coincide proprio con l’umanesimo radicale del filosofo di Treviri.
Non è dato sapere se il filosofo italiano Alfonso Maurizio Iacono sia d’accordo con il giornalista inglese, ma è indubbio che il suo ultimo libro – Studi su Karl Marx, Edizioni Ets, pp. 122, euro 15 – attinge pienamente al nucleo tematico di Marx troppo spesso liquidato, con una punta di disprezzo, come umanista. Va detto che l’autore non si pone questo problema, considerando dirimenti altri argomenti, come le tesi sull’essere sociale, l’alienazione, il feticismo delle merci, il concetto ambivalente di cooperazione. È infatti in questo solco che si collocano i saggi che compongono il libro, variamente scritti, ripresi, rielaborati tra gli anni Ottanta e i primi dieci anni del Duemila.
L’autore parte da una lettura comparativa dei testi marxiani – il Capitale, i Grundrisse, l’Introduzione alla critica dell’economia politica e i Manoscritti del ’44 – sui concetti di cooperazione e intelligenza collettiva per evidenziare l’attualità, ma anche il carattere laboratoriale che non può essere rimosso in nome della tradizione novecentesca del movimento operaio.
La cooperazione è dunque la dimensione coatta imposta dal capitale alla forza-lavoro. Ma qui emerge la sua ambivalenza: è sia il modo che manifesta il comando capitalista che l’ambito del conflitto tra lavoro vivo e capitale. E se questo era evidente nella manifattura e nella grande industri, tutto diventa complicato con la diffusione spaziale nella metropoli della produzione di merci. In questo caso la cooperazione presenta un carattere immediatamente sociale che coinvolge l’ambito della riproduzione, il «governo della vita» e dunque la «naturalizzazione» dei rapporti sociali e di potere. Il carattere ambivalente lo ha l’intelligenza collettiva: appartiene al singolo, ma ha un carattere collettivo e per questo va interpretata come un sapere sociale en general.
Per Marx, il superamento della sua ambivalenza sta nella intenzionalità condivisa dal lavoro vivo rispetto possibili vie tese al superamento del capitalismo. Da qui l’importante dell’antropologia marxiana incardinata nella figura dell’individuo sociale.
La natura sociale dell’essere umano è la condizione indispensabile affinché si manifesti l’unicità dei singoli. È quindi in questa ossimoro – individuo e sociale – che può essere dunque trovata la via per rompere l’ambivalenza della cooperazione produttiva imposta ai singoli dal capitale.
Su questo crinale c’è un affondo sul neoliberismo, che ha fatto leva, per l’autore, solo sul singolo, negandone la dimensione sociale. Iacono avverte di trattare la materia con cura, perché Marx è stato sostanzialmente un filosofo europeo e si è interessato specificatamente dei modi di produzione «asiatici» e russo solo negli ultimi anni della sua vita. Dunque, massima attenzione e cautela, facendo tesoro sia delle elaborazioni degli studi culturali e dei subaltern studies. Ma è proprio sull’analisi del neoliberismo che si addensano non pochi problemi, perché la dimensione sociale è parte integrante del neoliberismo.
È efficace La critica di Iacono alle robinsonate dell’economia politica del diciottesimo secolo, ma il neoliberismo ha tuttavia fatto leva su una figura ibrida del singolo, che deve far leva sulla sua natura sociale per valorizzare ciò che i maggiori teorici del neoliberismo qualificano come capitale sociale, intellettuale, affettivo. Più che una riproposizione delle robinsonate stigmatizzate a suo tempo da Marx, l’ultimo trentennio si è affermata una innovazione, di segno capitalista, va da sé, del concetto di individuo sociale. Si potrebbe così affermare che nel neoliberismo sì viene evocata propria la figura dell’essere sociale, ma attraverso un cambiamento di segno, individuando il mercato come l’arena di una competizione per la propria valorizzazione individuale. Iacono scrive che l’ambito nel quale questo è accaduto è quello dello scambio e della circolazione.
Ovvio che questo è quanto sia accaduto, ma non solo nel scambio (la circolazione). È stato il tono dominante della grande trasformazione nella produzione di merci: i concetti di cooperazione e di intelligenza collettiva sono stati cioè gli ambiti nei quali ha continuato a manifestarsi sfruttamento, ma anche appropriazione delle capacità innovative del lavoro vivo.
È in questa produzione teorica-politica di matrice liberista del soggetto che si è consolidata l’egemonia capitalista. Illuminante è il richiamo alla paralisi del pensiero critico contenuta nelle tesi di Mark Fisher sul «realismo capitalista» (il titolo del volume meritoriamente tradotto con questo titolo da Nero editions), dove l’assenza di alternative è assunta quasi come una dimensione «naturale» del capitalismo contemporaneo, data la capacitò degli apparati di dominio di «sussumere» ogni attitudine critica.
Altrettanto interessanti sono i saggi dedicati all’alienazione e al feticismo. Sul primo aspetto, l’autore sostiene che una certa tendenza all’alienazione – se questa è interpretata come tendenza a trasformare i rapporti sociali in rapporti tra cose – anche nella associazione libera dei produttori (il comunismo), perché prevede una sequenza scandita da ordine e pianificazione della cooperazione.
L’autore invita dunque a discendere negli atelier tanto della produzione che della circolazione, provando svelarne i contemporanei misteri. Un invito da accettare, senza tuttavia nascondere le difficoltà, le aporie, le contraddizioni se non di Marx delle diverse tradizioni marxiste che hanno scandito il Novecento. In fondo, questo è l’unica possibilità per rendere politicamente e teoricamente efficace quell’opera aperta che è l’opera marxiana, lasciando ai custodi del passato il triste compito di trattare Marx come un classico «cane morto».
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 19 giugno 2018