La cultura del clima

30 Luglio 2018 /

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di Bruno Giorgini
Al di là del circolo polare artico per oltre dieci giorni si sono misurate temperature tra i 30 (trenta) e 34 (trentaquattro) gradi, talché chi era andato colà in vacanza per esperimentare i ghiacci eterni munito di robuste giacche a vento, scarponi, berretti di lana e guanti, ha dovuto comperare magliette, scarpe da tennis, cappellini contro il sole.
Ovvero i ghiacci non sono più eterni, e sempre meno lo saranno. Si chiama riscaldamento globale, secondo l’espressione coniata da Wallace Smith Broecker, oceanografo di chiara fama. perché non ci siano dubbi, più a sud Atene e l’Attica bruciano, venti caldi, temperature altissime e il fuoco che basta respirare perché s’appicchi, e infatti! Con l’azione dei criminali che moltiplicano gli effetti.
Ma torniamo al Nord, nei dintorni del Polo. Immediatamente a molti viene in mente lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento delle acque, le città costiere allagate, le colonne di profughi che si spostano, migrano, verso i luoghi alti, per sfuggire ai conflitti e alle acque, a tutt’oggi più di 65 milioni di persone. È questa l’immagine catastrofica che più si ritrova in articoli, romanzi, film, sostenuta anche fortemente dall’alluvione di New Orleans, che tutti abbiamo visto sugli schermi del mondo, e per esempio il fotografo sudafricano Gideon Mendel ha costruito una mostra Submerged portraits ritraendo persone allagate, dal Regno Unito al Brasile, dal Pakistan alla Thailandia, Nigeria, eccetera.

Epperò ci sono disastri meno visibili, ma non per questo meno devastanti. Nell’inverno del 2017 una serie di giornate con temperature fuori scala di 10 gradi e più, ha surriscaldato il Polo Nord, sciogliendo il permafrost intorno allo Svalbard Global Seed Vault, un magazzino di sementi progettato per garantire che l’agricoltura sopravviva a qualunque catastrofe, e ha rischiato di essere allagato. Per fortuna un intervento rapido ha rafforzato le strutture, rendendole di nuovo impermeabili. Questo evento potrebbe essere il precursore di un possibile più grave disastro.
Il permafrost, come significa il nome, era fino a ieri assunto come ghiaccio eterno, ma se e quando dovesse sciogliersi, potrebbe liberare nell’atmosfera una gran quantità di metano, un gas serra 34 volte più potente dell’anidride carbonica per il riscaldamento globale. Infatti il permafrost artico incamera circa 1800 miliardi di tonnellate di carbonio. Se si scioglie queste evaporano nell’atmosfera, e il riscaldamento globale verrebbe accelerato ben oltre le attuali previsioni, esplodendo letteralmente.
Questa storia ci dice che il riscaldamento globale è un fenomeno assai complesso, come una torta a molti strati, e quindi l’ottica di concentrarsi sulla catastrofe immediatamente visibile – l’innalzamanto delle acque – può essere distopica. Adesso potremmo fare la descrizione e la lista delle catastrofi climatiche probabili se non certe, che sono molte fin quasi a “La fine del mondo” come ebbe a titolare l’Internazionale di sett./ott. 2017, pubblicando un lungo e dettagliato articolo del New York Magazine con i seguenti paragrafi : il giorno del giudizio, morire di caldo, niente da mangiare, epidemie climatiche, aria irrespirabile, guerra perpetua, crisi economica permanente, oceani avvelenati. E la terra nel giro di qualche decina d’anni quasi del tutto inabitabile.
L’apocalisse al confronto sembra uno scherzo. Ma allora perché almeno fino a ora non c’è stata una mobilitazione massiva dell’opinione pubblica mondiale per fronteggiare questo fenomeno e la catena di eventi catastrofici che può generare? Il riscaldamento globale mette in causa la vita associata e insieme la sopravvivenza biologica dell’intera umanità, e quindi appare ragionevole che la lotta al cambiamento climatico sia una causa che unisce gli esseri umani, tutti. Eppure così non è.
L’enciclica Laudato Sì di Bergoglio sull’ecologia integrale, documento di ampio respiro che tenta una interazione tra la fede e la ragione, non è riuscita a permeare di contenuti e pratiche neppure il mondo cattolico, parrocchie, associazioni, movimenti giovanili, ordini religiosi. Nessuno parlerebbe contro, ma la parola del Papa pare essere scivolata senza avere scalfito se non la superficie, mentre il mare profondo dei fedeli e delle istituzioni ecclesiastiche appare finora intoccato e/o insensibile. Certamente non impegnato in una missione per cui ne va la salvezza del Creato, l’armonia tra l’homo sapiens e la natura, la convivenza in pace e giustizia per gli esseri umani. Intanto la fase della discussione scientifica, se il riscaldamento climatico sia ormai in essere, oppure siano traveggole di qualche scienziato pazzo, è compiuta: i negazionisti sono rimasti in pochissimi nonostante la profusione di danaro e le pressioni delle lobby del carbone, petrolio e derivati.
Col che Trump ha denunciato gli accordi di Parigi e cerca di mettere i bastoni tra le ruote ai ricercatori, che hanno reagito fondando un movimento a livello internazionale, March For Science, organizzando specie negli USA alcune manifestazioni con migliaia di partecipanti, fenomeno del tutto inusuale per degli scienziati. Ovviamente c’è un’altra parte di ricerca scientifica e tecnologica completamente aperta, cioè quale sarà l’evoluzione del fenomeno, con quali tempi, e per quali aumenti di temperatura assumerà dimensioni catastrofiche locali e/o globali, se e come sia possibile rallentarlo se non fermarlo, come devono cambiare i comportamenti umani – ogni biglietto aereo andata e ritorno Londra New York costa all’Artico tre metri quadrati di ghiaccio – e quale sviluppo economico dobbiamo mettere in atto per questo, riconoscendo che la crisi climatica è associata in modo inestricabile alle disuguaglianze di potere e reddito, nonché alle ingiustizie sociali.
Se il fronte della scienza è ben guarnito, non basta però da solo. Devono entrare in campo i cittadini. Deve nascere una cultura del clima che sia patrimonio di ognuno/a di noi. Una cultura che, pur cosciente dei rischi di catastrofe, sia in grado di collocare la vita quotidiana di noi umani nell’universo del cambiamento climatico, di immaginare e scrivere storie in questo universo prima che le città costiere vengano allagate. Così forse tutti daranno una mano per tempo a alzare le dighe di protezione, oppure a preparare una evacuazione ordinata nel caso l’acqua straripasse. Così come ci sono corsi di educazione civica, bisognerebbe credo mettere in atto corsi di educazione climatica e meteorologia, preparando tutti/e alla protezione civile nel caso in cui.
Una cultura che non può essere altro che cooperativa e solidale, perché quando la città s’allaga o si incendia o soffre per la siccità l’unico modo è quello di tenersi per mano, di collaborare gli uni cogli altri. A meno che non si voglia invece incamminarsi sulla via del conflitto, della violenza, del saccheggio figurato o materiale. Come ci ricorda una targa al centro della Sala della Biodiversità del Museo Americano di Storia Naturale, “In questo istante siamo nel pieno di una Sesta Estinzione, questa volta causata esclusivamente dalla trasformazione del paesaggio ecologico a opera dell’uomo”.
Questo articolo è pubblicato da Inchiesta Online il 25 luglio 2018

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