di Sergio Palombarini
In queste settimane si discute molto, a vari livelli, del così detto decreto dignità, più precisamente il decreto legge n. 87, approvato dal Governo il 2 luglio scorso, e attualmente in fase di conversione in Parlamento. Tanto si è detto e tanto si dirà su questo provvedimento, che prevede diversi interventi di riforma in materia di diritto del lavoro, ed altri in materia di politica economica e gioco d’azzardo.
Ora, prima ancora che il decreto venga convertito in legge, con probabili modifiche, per un momento lascio da parte le singole questioni tecniche, le interpretazioni (ce ne sono già un po’ di tutti i generi), le prese di posizione politiche, ecc., per limitarmi ad una considerazione di carattere molto generale sulla parte del provvedimento sulle discipline del lavoro. Una cosa, al di là di tutto, mi pare indubitabile.
Questo provvedimento segna una (minima) inversione di tendenza rispetto alla più recente legislazione. Non è certo una vera e propria inversione di 180 gradi, è possibile che sia più la parte propagandistica che quella sostanziale, tutto quel che si vuole. Fatto stà però che la direzione (o forse anche solo la intenzione) è quella della riduzione della precarizzazione (parlo della disciplina dei contratti a termine), e della maggior tutela del lavoratore (seppur solo indennitaria) a fronte dei licenziamenti illegittimi.
Così come il tentativo di limitare la delocalizzazione delle imprese, e il tentativo di arginare il fenomeno della ludopatia (favorito dai governi precedenti con una alluvione di gratta e vinci e slot machines in tutto il paese). Lasciando da parte chi critica il decreto perchè darebbe fastidio alle imprese (Giorgia Meloni & c.), nell’area della sinistra più o meno diffusa, e tra i tecnici della materia, moltissimi commentatori dicono “si, ma..” (ma è solo propaganda, ma è solo il gioco delle parti in un governo di destra, ma non servirà a nulla, ecc) tutte critiche con un loro senso e una loro ragione; fermo tutto questo, io credo ci si debba soffermare quantomeno per un attimo sul “sì”, sulla intenzione di fondo e sulle cose positive che comunque il decreto introduce, nella speranza (forse illusoria) che il decreto n. 87 sia un primo segnale di una nuova, per ora fragile ed incerta, politica del lavoro che si concentri maggiormente sui diritti dei lavoratori e dei cittadini e non sul mito della “flessibilità”.
Rimanendo comunque in vigile attesa che la Corte Costituzionale si pronunci in autunno sulla legittimità del così detto contratto a tutele crescenti (decreto legislativo n. 23 del 2015), la cui eliminazione potrebbe portare ulteriore e maggiore slancio nella direzione di riforma della disciplina dei licenziamenti illegittimi, riportando la bussola nella direzione della tutela reale del posto di lavoro (parlo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ante riforma del 2015, seppure già indebolito dalla riforma “Fornero”, autentico architrave di tutto l’impianto dei diritti dei lavoratori).