L'umanesimo digitale e la vera privacy

18 Luglio 2018 /

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di Vincenzo Vita
La relazione annuale (2017) del Garante per la protezione dei dati personali Antonello Soro, presentata ieri alla camera dei deputati, corre via per venti pagine con consumata sapienza. Contiene, come sottotesto appena velato, un elogio della politica. Solo quest’ultima, nella versione alta e bella del termine – sì, la politica non è necessariamente robaccia – è in grado di districarsi dentro la colossale contraddizione del millennio.
Si tratta della complicata sintesi tra due diritti altrettanto importanti: trasparenza e tutela della privacy. Da una parte si chiede che tutto stia in una casa di vetro, dall’altra la quantità di dati che gira sulla vita di ognuno di noi interpella la democrazia sul permanente «Truman show»: in cui il privato è pubblico, rovesciando la sacrosanta indicazione femminista degli anni settanta.
«È indispensabile fare della protezione dei dati una priorità delle politiche pubbliche», ha sottolineato Soro. Che aggiunge, infatti, «Siamo… soggetti – più di quanto ne siamo consapevoli – a una sorveglianza digitale, in gran parte occulta, prevalentemente a fini commerciali e destinata, fatalmente, ad espandersi anche su altri piani, con effetti dirompenti sotto il profilo sociale».

Il caso di Cambridge Analytica, che ha utilizzato in modo massivo i profili di Facebook. Il tutto avviene sotto l’egida degli algoritmi, «non neutri sillogismi di calcolo, ma opinioni umane strutturate in forma matematica». Qui, ad esempio, si congiungono i due accennati poli della contraddizione, essendo la trasparenza dei sistemi di calcolo essenziale per ridare spazio e funzione alle persone, mettendole in grado di capire limiti e confini.
Bene ha fatto, tra l’altro, la Cgil ad inserire nel suo documento congressuale la negoziazione degli algoritmi, che va dall’organizzazione del lavoro (dai riders ad Amazon) alla partecipazione ai circuiti della conoscenza. La posta in gioco di una moderna lotta per la riservatezza riguarda proprio la soglia dei diritti della cittadinanza digitale, che evoca nel contempo il contenimento dei nuovi poteri e la salvaguardia delle esistenze individuali. Il cosiddetto «Internet of me», ovvero il flusso in entrata e in uscita che ci riguarda, va ben regolato.
Mentre va sottoposto a coercizione la degenerazione inquietante delle fake news, dell’hate speech e del cyberbullismo, per arrivare agli attacchi informatici (140 al giorno). La relazione integrale, 221 pagine dense, offre cifre e analisi dettagliate.
Il giornalismo è chiamato a trasformarsi adeguatamente, riscoprendo il valore della mediazione intellettuale di qualità. La normativa quadro di riferimento, divenuta applicabile lo scorso 25 maggio, è il Regolamento n. 679 del 2016 (forse troppo complesso per essere davvero applicato), di cui peraltro il governo non ha ancora emanato il decreto attuativo. L’esecutivo ha un ulteriore torto, la scelta di tenere i tabulati del traffico telefonico per un tempo esorbitante, contro la giurisprudenza della Corte di giustizia.
La California ha già approvato un articolato simile a quello europeo e il congresso degli Stati Uniti ne sta discutendo. A dimostrazione che il tema è ormai entrato in agenda, soprattutto dopo le audizioni a proposito di Facebook di Zuckerberg. Per frenare gli Over The Top è indispensabile un salto di qualità.
Ed eccoci all’Intelligenza Artificiale, che ha visto il 10 aprile 25 governi sottoscrivere un’«Alleanza europea», per scongiurare il trionfo acritico delle tecniche. Soro ha invocato un nuovo umanesimo digitale. Ci uniamo alla preghiera.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il Manifesto l’11 luglio 2018

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