All you need is pop: quando le politiche migratorie sono distruttive

26 Giugno 2018 /

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La relazione di Yasha Maccanico per la festa di Radi Popolare è molto bella ed è un peccato che non abbia potuto esporla tutta. Per questo impegniamoci a diffonderla il più possibile. Guido Viale
di Yasha Maccanico
In questo intervento vorrei sfatare alcune delle assurde polemiche di questi giorni, attraverso un racconto dei contenuti dei documenti europei nello studio dei quali è specializzata l’organizzazione inglese per la quale lavoro, Statewatch, in modo complementare a quello che abbiamo ascoltato dai partecipanti a questo dibattito. In particolare, mi vorrei soffermare sull’Agenda Europea sull’Immigrazione, la cui gestazione è avvenuta nella seconda metà del 2014 e la cui messa in campo è formalmente partita nella primavera del 2015. Segnala un appiattimento delle posizioni della Commissione Europea su quelle di Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Unione Europea.
In particolare, c’è da segnalare che le posizioni della Commissione e della fantomatica “Europa” della quale si lamentano le due compagini che fanno parte del governo non sono distanti da quelle che vorrebbero imporre. Questo perché la logica che viene seguita da oltre vent’anni è una politica di chiusura, di esclusione e di morte, molto simile a quella proposta dai vari Salvini e altri governi e politici di destra presenti in Europa. Una richiesta di aiuto da parte dell’Italia e della Grecia per la gestione dei flussi migratori misti (di rifugiati e cosiddetti migranti economici) ha permesso alle autorità continentali di dettare legge, e queste ultime si sono mosse come se fossero posseduti da un delirio di onnipotenza.

Il presunto “sforzo di solidarietà” verso questi due paesi celava il tentative di perfezionare e normalizzare il sistema che le pone in una situazione permanente di forte svantaggio strutturale, quello impostato dall’accordo di Dublino e dalla proibizione assoluta dei movimenti secondari verso altri paesi dell’UE. L’intensificazione prevista di queste politiche sia da parte dei governi nazionali che attraverso lo spiegamento delle Agenzie europee (la Task Force Regionale di Frontex a Catania, l’EASO, agenzia europea per il sostegno all’asilo, ed Europol per i controlli di sicurezza) tendeva a trasformarle in polveriere. Questo era dovuto alle procedure per gli hotspot volte all’accumulazione di persone frettolosamente etichettate come clandestini per le quali i due paesi dovevano servire come recinti.
Le istruzioni della Commissione al governo italiano (che le ha seguite anche se avrebbero inevitabilmente danneggiato l’Italia, una colpa importante) rappresentavano un attacco frontale contro il diritto d’asilo, lo stato di diritto, i principi costituzionali e i diritti delle persone che arrivavano. La Commissione imponeva l’intransigenza su tutti i fronti e, in combinazione con le analisi dei rischi di Frontex e del suo uso strumentale della nozione dei cosiddetti “fattori di attrazione”, diveniva una politica di morte, violenza, bullismo e deumanizzazione.
Inizialmente, col governo Letta, l’Italia ha subito questo approccio che era una risposta alla priorità data ai salvataggi, non solo sul controllo delle frontiere ma anche sull’acquisizione delle impronte digitali per nutrire la base dati EURODAC. Dopo il cambio di governo l’Italia l’ha fatto suo e adottato con crescente entusiasmo tramite l’adozione della legge Minniti-Orlando e le continue missioni di Minniti in Africa. Al di là delle schermaglie politiche e delle polemiche Italia-UE, bisogna segnalare che l’impostazione di queste politiche da parte di quasi tutti i partiti, dal PD a Forza Italia al M5S e la Lega, e anche della Commissione, è sostanzialmente uguale: comporta fare qualsiasi cosa per bloccare i migranti, anche a costo di degradare i nostri paesi e la stessa Unione Europea, che si sta degradando, anche a rischio di implodere. Alcuni sintomi di ciò sono la reintroduzione delle frontiere interne da parte di vari paesi, il Brexit in Inghilterra e l’involuzione autoritaria alimentata da questa spinta verso delle politiche sempre più intransigenti.
Il ruolo di Frontex, che apre formalmente con sede a Varsavia nel 2005, è segnato dalla sua impostazione massimalista, con una logica strumentale come metodo di lavoro il cui unico scopo è che non entri nessun immigrato cosiddetto irregolare attraverso i confini esterni dell’UE, senza alcun contrappeso. Già nei rapporti successivi alla missione in Libia e in Niger da parte della Commissione e Frontex (fine del 2004), era chiara una impostazione distruttiva per il fine di contrastare l’immigrazione. Quando i due paesi africani hanno sottolineato che non consideravano che l’immigrazione fosse un grave problema, il commento è stato che tali autorità non comprendevano l’importanza del problema. In più, persino il fatto che la popolazione libica non se la passasse tanto male in quell’epoca era considerato un problema, perché portava ad un’immigrazione di cittadini di paesi più lontani dall’UE che li portava in un paese che era vicino all’UE.
In più, la politica di morte adottata dalla sospensione dell’operazione Mare Nostrum in poi, era certificate da una “concept note” dell’agosto del 2014 per impostare la missione Triton che l’avrebbe sostituita della Frontex Joint Operations Unit Operations Division. Tale nota diceva:

“il ripiegamento delle risorse navali dalla zona, se non viene programmato bene e annunciato in largo anticipo, è suscettibile a causare un aumento nel numero di decessi”.

Nonostante ciò, la scelta fu questa e fu all’origine dello spiegamento di imbarcazioni delle ONG nel mare al nord delle coste libiche. Ovvero, fu una reazione a una scelta consapevole degli stati e dell’UE di lasclare morire più persone per scoraggiare le partenze. Questa impostazione secondo la quale chi parte deve morire in mare o soffrire le pene dell’inferno in territorio europeo prima di una ineludibile espulsione, è alla base del lavoro di analisi dei rischi, di supporto logistico e strategico-informativo di coordinamento svolto da Frontex, per conto e al servizio degli stati membri.
L’approccio hotspot, presuntamente per permettere le rilocalizzazioni di rifugiati verso altri stati membri prevedeva, in primo luogo, l’acquisizione delle impronte digitali di chi arrivava per nutrire la banca dati EURODAC (con l’insistente richiesta della Commissione di raggiungere un tasso del 100%, anche tramite l’uso della forza e persino su persone vulnerabili); in secondo luogo, i criteri estremamente restrittivi facevano sì che la quasi totalità di chi arrivava ne fosse escluso. In Italia, potevano godere delle “relocations” solo coloro che provenivano da paesi per i quali EUROSTAT certificava che nel precedente anno erano state accettate il 75% delle richieste d’asilo (essenzialmente solo gli eritrei tra le nazionalità che giungevano in Italia). Lo stesso gioco per escludere quasi tutti e trattarli da “clandestini” non sarebbe funzionato in Grecia dovuto all’arrivo di grandi numeri di siriani e iracheni, per cui è stata fissata una data (il 21 marzo 2016) dopo la quale tutti coloro che arrivavano sarebbero stati rispediti in Turchia. C’è persino un documento della Commissione che subordinava la validità dei diritti umani all’acquisizione delle impronte (un “non-document” intitolato “no registration, no rights”). All’inizio dell’approccio hotspot, persino le Nazioni Unite si sono permesse di criticare il piano, parlando di procedure di selezione basate su pratiche di scrematura grossolana in base alla nazionalità, ovvero l’essenza stessa della discriminazione. I “progress report” periodici pubblicati dalla Commissione includevano un controllo minuzioso delle attività svolte e una serie di ordini inequivoci, presentati come raccomandazioni. Generalmente, promuovevano la violazione dei diritti dei migranti e delle leggi, della Costituzione e dei quadri normativi, usando degli incalzanti toni manageriali. Questi non si applicavano alle “relocations” anche se tale “sforzo di solidarietà” verso l’Italia e la Grecia era quantitativamente ridicolo (160.000 persone) anche prima che alcuni paesi si sono inventati nuovi “prerequisiti” per rifiutarle, e infine alcuni paesi si sono opposti alle relocations in linea generale (la Commissione non aveva il diritto di imporle). Ad oggi (dati del 19 maggio 2018, quasi tre anni dopo l’inizio dello schema), ci sono state solo 12.690 rilocalizzazioni dall’Italia verso gli altri stati membri, e più di 5.000 dei beneficiari sono stati trasferiti in Germania.
Gli effetti di questo approccio per i paesi in prima linea e per l’Italia erano prevedibili. L’Italia e la Grecia sono state spinte verso una situazione insostenibile, che non avrebbero potuto gestire da sole. Questo, perché la cosiddetta crisi è stata create artificialmente dalle impostazioni europee; è poi stata mantenuta ad arte, e con grandi sforzi, per permettere la violazione delle regole e delle cornice normative in modo generalizzato e per periodi protratti. In somma, l’Italia e la Grecia dovevano diventare dei recinti per migrant e rifugiati. Questo è certificato dal rilassamento delle regole per la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne, come indica l’ottavo rapporto sul funzionamento dell’Area Schengen del dicembre 2015:

“Anche se nel 2013 i legislatori furono d’accordo che i flussi migratori, da sè, non possono giustificare la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne, la Commissione è dell’opinione che l’influsso incontrollato di grandi numeri di persone indocumentate o non adeguatamente documentate, non registrate al loro primo ingresso nell’Unione Europea, può costituire una seria minaccia per le politiche pubbliche e per la sicurezza interna e, per ciò, può giustificare l’applicazione di questa misura straordinaria prevista dal Codice per le Frontiere Schengen (Schengen Border Code)”.

La fase seguente prevista nell’Agenda Europea è particolarmente distruttiva nonostante il suo titolo apparentemente ragionevole: si tratta del piano “per ristabilire la credibilità del sistema europeo per i rimpatri”. Questo sarebbe necessario dovuto alla mancata esecuzione di una gran parte (il 60%) dei provvedimenti di espulsione o di ordini di lasciare il territorio nazionale (e quindi quello dell’UE), ma non considera il gran numero di espulsioni o di ordini di rimozione che sono stati emessi illegalmente per sgomberare alcune località, sia in Francia che in Italia. Tecnicamente, dai documenti ufficiali, comporta una rilettura della Direttiva sui Rimpatri del 2008, che normalizzava gli istituti della detenzione e delle deportazioni (rimpatri sembra meno aggressivo) in cambio di una lista piuttosto lunga di misure per la salvaguardia dei diritti e un approccio leggermente più umano.
Tra questi, venne previsto che la detenzione non doveva essere sistematica, veniva fissato un limite alla sua durata, andava privilegiata una prassi che desse alle persone migranti l’opportunità di andarsene volontariamente, ed erano considerati i bisogni dei minori e di varie tipologie di persone da considerare “vulnerabili” (malati, vittime della tratta, ecc.). La reinterpretazione proposta dal marzo 2017 in poi da parte della Commissione richiedeva il ridimensionamento di queste salvaguardie, considerate dei meri “ostacoli strumentali al rimpatrio” o addirittura “pull factors” (fattori di attrazione). Quindi, le misure per la protezione dei minori non accompagnati ed in particular modo la proibizione di espellerli che vige in molti stati membri, andavano considerati un “fattore di attrazione” che li spinge ad intraprendere il viaggio verso l’Europa. Nello stesso modo, le malattie, i casi di invalidità, la necessità di cure o di protezione, e persino le richieste d’asilo non formulate immediatamente, andavano interpretati come “ostacoli strumentali ai rimpatri” da neutralizzare.
Tale piano richiede una caccia all’uomo su grande scala per espellere dei grandi numeri di persone, una proliferazione dei CIE nei paesi di primo approdo per permettere le espulsioni immediate successive al passaggio attraverso gli hotspot e all’esclusione dal diritto di richiedere l’asilo che veniva praticata al loro interno. Per questo l’attacco delle istituzioni si è concentrato contro chi si oppone frontalmente a queste politiche, per motivi sia umanitari che politici. Dal punto di vista istituzionale, si tratta di imporre la volontà dell’UE e degli stati, o l’obbedienza assoluta all’autorità costituita. Quindi, chi disobbedisce alla proibizione di emigrare deve: a) morire (il motivo per la ritirata dei mezzi di salvataggio in mare dalle coste libiche imposta all’Italia); o b) soffrire le pene dell’inferno all’adiaccio e senza poter lavorare o godere dell’assistenza delle popolazioni fino alla sua ineludibile cacciata.
L’altro pilastro è quello dell’esternalizzazione, che non è una novità. Come non lo sono le partenze verso l’Europa e le morti in mare provocate dal regime proibizionista verso le migrazioni, che si susseguono dagli anni 90 del secolo scorso, anche quando non c’erano le ONG. Nel 2008, il governo Berlusconi e il regime di Gheddafi avevano collaborato in questo senso. Dal 2011, con la caduta del regime libico, si è imposto come buona pratica da rendere di applicazione generale (dal punto di vista del duo Commissione/Frontex) il modello degli accordi di riammissione dell’Italia con la Tunisia e l’Egitto. Ad ottobre del 2014, l’UE ha promosso l’abbandono dell’operazione Mare Nostrum condotta dall’Italia, e si è imposta una visione che prevede che la Libia facia da tappo alla rotta del Mediterraneo centrale, anche attraverso la creazione di una sua guardia costiera, che il Niger serva come centro per lo smistamento dei rimpatri verso i paesi africani, mentre tocca alla Turchia il ruolo di tappare la rotta orientale verso la Grecia e i Balcani. Ciascuno di questi progetti comporta degli ingenti finanziamenti, spesso tratti dai fondi per l’aiuto allo sviluppo, consegnati a dei regimi che non brillano per il rispetto dei diritti. Piuttosto, gli vengono imposte e pagate delle politiche per conto dell’UE che ne rafforzano le strutture repressive, soprattutto per quanto riguarda il controllo delle loro popolazioni e delle frontier dei loro stati. Con la partenza del sistema hotspot, l’Italia segnalò che piuttosto che gli accordi di riammissione (impegnativi per quanto riguarda i negoziati, con un minimo grado di controllo parlamentare, e con le garanzie di diritti che comportavano), sarebbero preferibili degli accordi di tipo “tecnico”, di “cooperazione operativa”, o dei “protocolli operativi”. L’Italia siglò accordi di questo tipo (Memorandum d’Intesa) sia con il Sudan che il Gambia, attraverso i ministeri degli interni o direttamente con le autorità di polizia dei paesi di origine.
Il concetto di paesi terzi sicuri verso i quali espellere le persone non sono una novità, viola i principi della Convenzione di Ginevra sui Rifugiati e la natura individuale e personalizzata dell’esame delle richieste d’asilo, ed è un istituto che si era già provato ad introdurre nel 2005 (senza riuscirci dovuto all’opposizione iniziale di alcuni paesi dell’est europeo). Le associazioni ASGI e ARCI hanno condotto delle missioni in Africa che hanno portato a delle denunce presso la Corte Europea per i Diritti Umani. La prima riguarda l’espulsione di cittadini sudanesi ai quali era stato negato il diritto di richiedere l’asilo in Italia e che avevano subito abusi come la detenzione arbitraria al loro rientro, e chiama in causa la natura stessa dell’accordo tra l’Italia e il Sudan e la sua legalità. La seconda riguarda i rimpatri effettuati dalla guardia costiera libica in una delle operazioni durante le quali ha affrontato una nave dell’ONG SeaWatch che avevano effettuato dei salvataggi, prelevando oltre quaranta persone per riportarle in Libia. La missione delle associazioni italiane ha rintracciato alcune di queste persone che hanno raccontato le loro esperienze in seguito a tale rimpatrio – detenzione nei centri dove i maltrattamenti sono all’ordine del giorno (quindi violenze, stupri, sovraffollamento e altri orrori), mentre due di essi sono stati rapiti e ridotti in schiavitù.
Per concludere e sottolineare la natura distruttiva delle politiche restrittive sull’immigrazione non solo in Europa, ma anche al di là delle nostre frontiere, citerò un estratto dal messaggio rivolto da varie associazioni della società civile Togolese al loro governo, responsabile per rinegoziare l’accordo di Cotonou del 2000. Tale accord prevede il sostegno europeo a una democratizzazione dei paesi dell’Africa, del Pacifico e dei Caraibi (Gruppo ACP) per promuovere i diritti umani, sostenere lo sviluppo delle loro società civili e delle loro economie. Però, l’UE si concentra principalmente sul suo articolo 13, quello che prevede la generalizzazione dell’uso di accordi di riammissione per permettere il rimpatrio dei loro cittadini presenti irregolarmente in Europa, sistematicamente e “senza ulteriori formalità”. Nella applicazione pratica dell’accordo, si è creata una situazione nella quale gli aiuti allo sviluppo vengono subordinati a questa condizione, quasi come una forma di ricatto:

“La società civile Togolese mette l’enfasi sulle situazioni difficili sorte dall’imposizione degli EPA (Accordi di Partnerariato Economico) nelle sei regioni del Gruppo (ACP) che hanno reso più fragile la loro integrazione e sono stati nocivi per la sopravvivenza dei loro produttori agricoli, allevatori e pescatori. Inoltre, l’uso dell’aiuto allo sviluppo da parte dell’UE per ricattare i paesi ACP in cambio della firma di accordi per la riammissione dei migranti indocumentati o, più in generale, di accordi per controllare la mobilità e la migrazione di cittadini dei paesi ACP verso l’Unione Europea, ha avuto effetti dannosi per la società civile negli ultimi anni. Gli effetti negative di questi accordi in termini sia economici che sociali è stata oggetto di critiche della società civile nei paesi ACP e in Europa attraverso numerose mobilitazioni da parte dei cittadini, senza che queste voci fossero ascoltate. L’illusione democratica vendutaci dall’accordo di Cotonou è stata messa da parte di fronte alla volontà degli stati europei di difendere i loro interessi geopolitici e i profitti delle corporazioni transnazionali”.

Ovvero, le politiche attuali per combattere l’immigrazione sono distruttive, non solo per le società europee, ma anche per quelle dei paesi di origine… questo sì che rappresenta un fattore di attrazione verso l’UE o di spinta a lasciare i loro paesi di origine.
Tre punti fondamentali per il dibattito attuale:

  • Il vero “business” è quello della lotta contro l’immigrazione… il cosiddetto “business dell’accoglienza” ne è un corollario, visto che le persone che arrivano vengono deumanizzate e rese oggetto di un sistema presuntamente di accoglienza ma che in realtà è di contenimento per evitare che possano agire in autonomia e perseguano i loro piani, il che li renderebbe più autosufficienti. Infatti, con l’Aquarius in mare, il commissario Avramopoulos ha annunciato un triplicamento delle risorse economiche per le politiche di sicurezza e immigrazione.
  • Le ONG che effettuano salvataggi in mare si sono attivate come risposta alla scelta consapevole da parte dell’UE e dei paesi membri di lasciare morire un gran numero di persone. Ma l’attacco attuale riguarda anche chi fornisce assistenza sul territorio italiano, come appendice del cosiddetto “piano per ristabilire la credibilità del sistema europeo per i rimpatri”.
  • L’Europa e degli importanti valori come lo stato di diritto, i diritti umani e il valore della solidarietà, nonché la stessa Unione Europea e i suoi paesi, vanno protetti dai piani della Commissione e di Frontex per degradarle in nome di una politica per la gestione dell’immigrazione che è distruttiva sia in Europa che, ancora di più, nei paesi al di là delle nostre frontiere.

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