di Michele Fumagallo
Leggo, a ogni anniversario del rapimento e dell’assassinio del dirigente della Democrazia Cristiana (il partito di maggioranza relativa che governava l’Italia allora) Aldo Moro, moltissime ipotesi sulla sua morte, sulla sua prigionia nel covo delle Brigate Rosse, sulle sue lettere dal carcere, e su molte altre questioni.
Ciò di cui si parla sempre poco, e che a me è sembrata invece sempre la vera falsa coscienza di tutta la questione, è la modalità della trattativa nei 55 giorni della sua prigionia (che si concluse con l’omicidio, il 9 maggio 1978). Non mi riferisco alle ipotesi di altre forze in campo che hanno manovrato nel braccio di ferro tra lo stato e le brigate rosse. Questa mi è sempre apparsa una cosa più “dietrologica” che reale; e in ogni caso non la questione principale.
Parlo invece dello scontro tra la fermezza (propugnata da gran parte delle forze politiche, sia pure con intenti e “onestà” intellettuale diversi) e la trattativa (difesa da minoranze, anche qui con intenti e “onestà” intellettuale diversi).
Fu una cosa atroce per me (e per noi: “il manifesto”, giornale e “gruppo politico” a cui appartenevo, era schierato decisamente e giustamente per la trattativa). Mi ricordo di aver toccato lì, con mano, non solo l’insipienza dell’astrazione “statuale” (una miseria impressionante degli organi istituzionali dello stato, complessivamente inteso), ma la sua disumanità quando è staccata dalla vita reale delle persone.
È una questione che non si affronta mai nei termini decisivi in cui andrebbe affrontata. Nel “caso Moro” la si mette volentieri tra parentesi come se non fosse la questione principale, ma una delle tante questioni legate a quel caso.
Invece, che uno stato serio e forte tratti in linea di principio, e con chiunque, quando è in gioco la vita di qualsiasi persona (e non ne parliamo poi di un dirigente politico), è cosa fondamentale nella concezione non astratta ma viva di un’istituzione. Sia chiaro: trattare, nel caso dei rapimenti, significa semplicemente prendere atto che, momentaneamente (sottolineo: momentaneamente, perché non c’è partita tra un gruppo, forte quanto si vuole, di terroristi e un’organizzazione armata come uno stato), i rapitori sono più forti perché posseggono un ostaggio in un luogo sconosciuto.
La trattativa è un’operazione non solo obbligatoria per un’istituzione che abbia la vita delle sue persone in cima ai pensieri (e non il feticcio dell’istituzione stessa), ma di intelligenza militare minima. Trattare significa anche capire dov’è il prigioniero, anche eventualmente sparare e uccidere i rapitori per liberarlo. È una tattica elementare. L’istituzione forte (intendo democraticamente forte) tratta perché non ha problemi di nessun tipo, tranne appunto la tattica giusta per liberare il prigioniero.
Ricordo limpidamente che il comportamento degli organi dello stato mi turbò. Per due ragioni almeno. Perché vedevo l’inconsistenza e l’infantilismo di quasi tutta la classe politica. E perché vedevo giorno per giorno crescere la possibilità che Moro venisse ucciso senza che nessuno mettesse in atto l’unica cosa giusta e lampante, cioè la trattativa.
Ricordo ancora l’ipocrisia di tanti (in testa Democrazia Cristiana e Partito Comunista) che parlavano di “non cedimento”, come se uno stato che tratta per liberare una persona “cedesse”, e non invece mettesse in atto l’unica cosa seria per sconfiggere i rapitori.
Che lezione trarre da quella storia? Per me, una grande lezione: un’istituzione non “sottomessa” (sottomessa, non “sopra messa”) alla vita delle persone da cui trae la sua funzione e la sua “linfa vitale”, è un’aberrazione. Un gioco “meccanico”. Un gioco letteralmente “disumano”. Una “politica” falsa, da cui stare lontani, su cui “sparare” (è la parola) bordate di fuoco. Una “politica” da non riconoscere come tale, e a cui quindi va immediatamente tolta la sua “patente”.
Questo articolo è un breve post scritto per un sito web dieci anni, fa nel trentennale del rapimento di Aldo Moro. Lo ripropoiamo oggi, nel quarantennale dell’uccisione del dirigente politico democristiano, perché mi è urgente un dibattito sul senso della politica, sulla sua centralità umana (che significa centralità della società sulle istituzioni, non il contrario). Valori imprescindibili per una sinistra egualitaria, oggi da costruire, che voglia rimettere al centro la politica e il senso profondo di sé.