Le conseguenze dell'amianto nella valle del diavolo in Toscana

6 Aprile 2018 /

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di Marco Amerighi
Nell’inverno del 2011 ricevetti la telefonata di L., un amico che non vedevo da un po’. “Devo darti due notizie: una buona e una cattiva”, mi disse. La buona era che aspettava un figlio. La cattiva che al padre di sua moglie – operaio di 62 anni nella centrale geotermica di Larderello, in provincia di Pisa – era stato riscontrato un mesotelioma pleurico da amianto. Tradotto in termini più comprensibili: nei successivi nove mesi, il mio amico avrebbe visto nascere il primo figlio e morire di tumore il suocero.
All’epoca avevo rinunciato alla carriera accademica e mi ero trasferito a Torino, dove sbarcavo il lunario facendo il dog-sitter e la maschera in un teatro, in attesa di capire cosa combinare nella mia vita. Quando in quella mattina del 2011 il mio amico smise di parlare, capii che dovevo girare un documentario su sua moglie e suo padre. Avevo già il titolo: Nella valle del diavolo.
“Pensi che me lo lascerebbero fare?”, gli chiesi. Lui prese tempo: il progetto gli piaceva, ma la famiglia era scossa e la situazione delicata. “Dammi qualche giorno e ti faccio sapere, ok?”. Non girai nessun documentario. Poche settimane dopo quella telefonata, la moglie del mio amico perse il figlio e si chiuse al mondo in attesa del secondo lutto. E io abbandonai l’ennesimo progetto della mia vita.

Dagli etruschi ai primi del novecento
Larderello è un villaggio industriale di quattrocentocinquanta abitanti nell’entroterra pisano – a undici chilometri da Serrazzano, il paese in cui io e L. siamo cresciuti. Chiunque vi capiti per caso – dopo aver percorso i settanta chilometri di saliscendi che lo dividono da Siena, a est, o i cinquanta che lo separano dalle spiagge modaiole di Follonica, a sud, e dai vitigni da cartolina di Bolgheri e Castagneto Carducci, a ovest – noterà subito due stranezze.
La prima: la puzza di uova marce che impregna l’aria. La seconda: una ragnatela infinita di tubi argentati che solcano i campi di grano e i boschi di sughere e di querce, entrando e uscendo dal terreno come serpenti, per poi ricongiungersi ai piedi delle enormi torri di refrigerazione di cemento al margine del paese. Difficilmente, però, chi vi capiti per caso potrà immaginare che quella che ha di fronte è la prima centrale geotermica mai costruita al mondo.
I crateri di fanghiglia ribollente e i vapori sulfurei che escono dalla crosta terrestre di Larderello erano noti già agli etruschi e ai romani, che li usavano per i loro trattamenti di bellezza. Dante Alighieri cantò le “fummifere acque […] e li vapor che la terra ha nel ventre” nelle sue Rime, poco prima che la chiesa ordinasse di chiudere i bagni termali, giudicando immorale che uomini e donne si lavassero insieme. Se, come dice Mario Vargas Llosa, “sono sempre gli uomini logici e freddi a fare le rivoluzioni, mai i sentimentali”, non stupirà che gli uomini che rivoluzionarono queste terre inospitali furono tutti scienziati.
Nel 1777 il chimico tedesco Hubert Franz Hoefer avviò la prima azienda che dalle acque termali estraeva acido borico, un composto che un tempo era considerato sedativo, dalle proprietà antisettiche. Cinquant’anni dopo, mentre in Francia si perfezionava la locomotiva a vapore, l’ingegnere François Jacques de Larderel intuì che invece di bruciare tonnellate di legna per far bollire le acque boriche e ricavare l’acido borico, si poteva sfruttare il calore del vapore che usciva dal terreno. Una trovata così geniale, e redditizia, che il granduca Leopoldo II fu lieto di ribattezzare quel posto Larderello. Fu solo nel 1904, tuttavia, che fece la comparsa il più grande di quei rivoluzionari, il conte Piero Ginori Conti. L’uomo che, convogliando il vapore endogeno verso un motore collegato a una dinamo, accese cinque lampadine, trasformando per la prima volta l’energia termica e meccanica in energia elettrica.
E così, di rivoluzione in rivoluzione, mentre il Mussolini socialista dirigeva il quotidiano Avanti! e il poeta fiorentino Palazzeschi si lanciava nelle sue capriole futuriste, in quella valle del diavolo in cui l’aria puzzava di zolfo e i fischi assordanti degli sbuffi di vapore acqueo bollente (conosciuti come soffioni) costringevano gli operai a turare le finestre con i materassi, il 10 marzo 1914 entrò in funzione la centrale 1 della Società boracifera di Larderello. Era la nascita di un nuovo tipo di energia pulita, sicura, economica e inestinguibile: la geotermia.
Silenzio sull’amianto
Su queste colline i paesi sono frazioni microscopiche: una manciata di case disposte lungo una provinciale scassata che diventa una lastra di ghiaccio in inverno e un miraggio d’asfalto in estate. Una chiesetta nel punto più alto, un alimentari poco fornito, un bar con i tavoli in formica e i lampadari al neon, una scuola elementare, un cimitero. L’unica scuola media del circondario si trova a Larderello, in un complesso di mattoni rossi a tre piani immerso in un silenzioso bosco di pini.
Anche io e il mio amico siamo andati a scuola là. Abbiamo ascoltato il frastuono dei soffioni affacciati alle finestre delle aule, baciato le prime ragazze dietro a una tubiera, durante la ricreazione. E per tre anni, ogni mattina, abbiamo preso l’autobus assieme agli operai.
A ottocento metri dalla scuola media De Larderel, in un edificio arancione con le persiane verdi di via Nasini, c’è la casa di Marco Chiavistrelli. O meglio, la casa in cui ha vissuto durante i suoi anni di operaio addetto alla gestione e alla manutenzione dei vapordotti della centrale. Chiavistrelli è un uomo alto ed energico. Ha 62 anni, due spalle enormi e lo sguardo magnetico di un prestigiatore.
“Dell’amianto non ci aveva mai parlato nessuno”, dice. Le parole gli escono lente, gommose, come se l’avessi svegliato nel cuore della notte. “Vivevamo lontano dalle città e dai giornali più diffusi, e ogni volta che provavi a parlarne era come scalare l’Everest”. Per trent’anni quest’uomo ha legato “trecce d’amianto” attorno alle valvole guaste dei vapordotti o alle guarniture corrose dalla ruggine e dal calore, senza la minima idea che potesse essere un lavoro rischioso.
Nessuno gli aveva detto che le fibre di questo minerale erano milletrecento volte più sottili di un capello e che l’esposizione prolungata poteva causare – anche a distanza di venti o trent’anni – malattie gravissime come l’ispessimento della pleura, il tumore alla faringe o il mesotelioma pleurico. L’ha saputo con certezza solo nel 1992, quando in Italia venne approvata la legge che ne vietava l’estrazione, l’utilizzo e la commercializzazione. Peccato che ormai fosse già stato usato come isolante termico in tutta Italia. E non solo in campo industriale, ma anche nei soffitti di scuole e ospedali, nelle canne fumarie e nei forni, nei piani cottura dei panifici e nei vagoni dei treni.
Chiavistrelli è in pensione da dieci anni e ora fa il cantautore. Come molti ex operai, ha lasciato Larderello, portandosi dietro una lieve forma di asbestosi, una malattia polmonare cronica causata dall’inalazione di fibre di amianto. È lui a raccontarmi una storia che suona incredibile ma che, sulla fine degli anni sessanta, era normale amministrazione. “Ci ho scritto su una canzone per caso e ora me la chiedono a tutti i concerti: è diventata una specie di manifesto”. È la storia della cooperativa Vapordotti e dei venti operai che stuccavano i tubi della centrale con la “fibretta d’amianto” per coibentarli e impedire che il vapore diretto alla centrale si raffreddasse. “Cos’è la fibretta?”, chiedo.
Chiavistrelli fa una pausa. Anche se ha ripetuto più volte che è contento di parlarmene – “La ritengo una parte importante della mia vita e della storia di tutti”-, mi sembra esausto. “Immaginatela come una polvere di borotalco”, dice dopo qualche secondo, “gli operai della Vapordotti la portavano a spalla nei sacchi. Nelle pause pranzo ci si stendevano sopra e ci mangiavano, o ci facevano un pisolino”. Di quelle venti persone, oggi ne è rimasta in vita solo una. “L’amianto gli ha mangiato la gola e fa fatica a parlare”, mi dice quando ci salutiamo.
Dall’eccellenza ai veleni
Nonostante i bombardamenti della seconda guerra mondiale che rasero al suolo il paese, la produzione della centrale continuò a crescere, attirando ingegneri, chimici e operai specializzati da tutta Italia. Per trattenere i dipendenti oltre l’orario di lavoro in quella località sperduta dove l’aria solforosa anneriva l’argenteria e gli autobus impiegavano un giorno per raggiungere Firenze, nel 1954 la Larderello spa (che aveva sostituito la Società boracifera) affidò all’architetto Giovanni Michelucci – già noto per aver progettato la stazione ferroviaria di Santa Maria Novella, a Firenze – il compito di studiare un piano di incremento urbanistico creativo e rispettoso dell’ambiente.
In pochi anni, nonostante le preoccupazioni dell’architetto – “Qui servono zone di riposo, di studio e di meditazione!” – e le difficoltà dovute a un terreno scosceso e sismicamente instabile, nacque il nuovo centro urbano. Comparvero così il villaggio operaio, la chiesa, le case per gli operai e la torre per i dirigenti, le edicole votive ai bordi della strada, il campo da calcio, quello da tennis e da bocce, il nuovo acquedotto, la palestra, la piscina, la pista di pattinaggio e l’edificio pubblico più amato, il cinema-teatro dove si sarebbero esibiti Walter Chiari, Wanda Osiris, Milva e le compagnie di rivista più in voga dell’epoca. Era l’età dell’oro. Un lavoro sicuro, un ottimo stipendio, un’azienda che si prendeva cura dei suoi dipendenti come un padre severo ma giusto.
Per decenni gli operai dell’Enel, che nel 1963 era subentrata alla Larderello spa, hanno vissuto nelle abitazioni dell’azienda pagando un canone d’affitto agevolato. Alla fine degli anni ottanta, però, quando la dirigenza fu trasferita a Pisa e molti dipendenti furono mandati in pensione, il paese cominciò a svuotarsi. In pochi anni, gli abitanti passarono da millecinquecento a meno di seicento.
Come Larderello, anche le altre frazioni dei dintorni costruite negli anni cinquanta dall’architetto Michelucci hanno avuto lo stesso destino. Il villaggio operaio di Fabbriche, sulla provinciale 329 Bocca di Valle, dove io e il mio amico festeggiavamo i compleanni, dove andavamo a sgommare con i motorini, dove ciondolavamo dai vapordotti fumando una sigaretta dopo l’altra e provando a leggere il nostro futuro nei riccioli di fumo bianco che salivano dalle torri delle centrali, oggi sembra il set di un film di fantascienza abbandonato in fretta e furia: le case vuote, i vetri delle finestre in frantumi, le persiane sventrate, le tegole sbriciolate a terra.
Quando da dietro una siepe o in un campo spunta un vecchio tubo rivestito d’amianto, gli ultimi tre residenti del paese richiedono la rimozione e l’Enel provvede. Ma su tutto il resto, i terrazzi e le scale invasi dall’edera e dalle piante di capperi, le grondaie che penzolano a mezz’aria come maniche a vento, i rami che inondano le strade dopo ogni temporale, ormai si sono rassegnati. Qualcuno, raccontano, ha perfino trafugato oggetti dalla chiesa.
Le prime visite, i morti
Avevo incontrato Maurizio Cardellini per la prima volta sei anni fa, alla giornata mondiale delle vittime dell’amianto, nel piccolo teatro De Larderel di Pomarance. Io ero in piedi, con il mio taccuino in mano, dietro all’ultima fila di poltroncine blu. Lui aveva appena finito un intervento sul palco. “Sei un giornalista?”. Avevo scosso la testa e mi ero lanciato a raccontare la storia del suocero del mio amico, “voglio solo documentarmi meglio”. Lui aveva sorriso, con un’aria bonaria. “Allora sei nel posto giusto”.
Questa volta gli telefono. Cardellini lavora ancora alla centrale di Larderello ed è il responsabile regionale dell’associazione italiana esposti amianto. Parlare con lui è come sfogliare un libro di storia. Mi racconta delle battaglie con i sindacati e i cittadini negli anni novanta per avviare le bonifiche del territorio e per sviluppare una rete di controlli sanitari, in collaborazione tra Enel e azienda sanitaria locale (asl). Dalle prime visite interne all’azienda, risultò positivo a patologie amianto correlate il 33 per cento degli operai sottoposti a controllo, dice Cardellini. “Ma erano visite su base volontaria”, dice, e la strada per l’attuazione di un piano valido di messa in sicurezza degli impianti e del territorio era ancora lunga.
Se mi sforzo e ripenso agli anni in cui giocavo a calcio a Larderello, rivedo i pezzi di vapordotti abbandonati lungo i canali di scolo come vecchie lavatrici, nei ruderi, nei campi, sotto gli alberi, nascosti da un tendaggio di fortuna che doveva impedirne la vista ai passanti. Chissà cosa credevo che fossero, a undici anni.
Tra il 1992 e il 2007 si sono ammalati quasi duecento lavoratori. E non solo loro. Pagarono il prezzo dell’amianto anche le mogli che lavavano le tute dei mariti, gli autisti che guidavano gli autobus degli operai, i meccanici delle officine, gli stradini che pulivano i detriti caduti dai camion delle cave di gabbro circostanti.
“Oggi il grosso del problema è alle spalle”, dice Cardellini, provando a tracciare un bilancio. In due decenni dalla messa al bando dell’asbesto, l’Enel ha speso più di trenta milioni di euro per ripulire il territorio, bonificando tutti i siti principali e collaborando con le asl. In più, il comune ha acquistato le case di proprietà dell’Enel e le ha messe in vendita. E Larderello ha cominciato timidamente a ripopolarsi. Giovani coppie in cerca di una casa spaziosa a prezzi bassi, manovali slavi e marocchini che aspettano di farsi raggiungere dalle famiglie.
“Però non c’è da gridare vittoria. I malati continuano a comparire. Qualcuno, ogni tanto, muore ancora”.
Secondo i dati dell’osservatorio nazionale amianto, diretto dall’avvocato Ezio Bonanni, in Italia muoiono per malattie correlate all’asbesto circa tremila persone all’anno. Il picco delle morti è atteso attorno al 2025. Intanto, nel 2017 il processo a carico di quattro dirigenti dell’Enel di Larderello, accusati di omicidio colposo per aver “omesso di attuare le misure di prevenzione e di rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui erano esposti”, si è risolto con un’assoluzione.
L’importanza della memoria
Ricordo i miei anni di dottorato come una stanza buia attraversata da lame di luce granulosa in cui galleggiano alla rinfusa biografie, articoli e citazioni. Una delle mie preferite dice: “Viviamo voltando le spalle alla memoria del mondo, come se temessimo di essere ritenuti antiquati perché ricordiamo qualcosa del passato”. Credo che il motivo per cui mi piace ancora così tanto questa frase di Enrique Vila-Matas sia dovuto al fatto che mi ricorda due aspetti fondamentali della vita e della scrittura. Il primo: che bisogna fregarsene di come ci vedono gli altri. Il secondo: che non si può guardare solo in avanti.
Anche se il mio amico si è trasferito a quaranta chilometri dal paese in cui siamo cresciuti e io vivo a Milano, ci frequentiamo ancora. Per Natale e per Pasqua, ci troviamo al bar e brindiamo con campari e vino bianco. Per il compleanno ci scambiamo gli auguri su WhatsApp. In rari sporadici momenti di nostalgia, progettiamo di incontrarci a metà strada, ma non lo facciamo mai. Siamo amici che vivono lontani, come tanti. Eppure, certe volte, mi sembra di avergli voltato le spalle. Di aver dimenticato la sua storia e aver continuato a vivere ostinandomi a tenere gli occhi fissi sull’orizzonte, come se la morte di suo suocero o dell’autista che mi portava a scuola ogni mattina, fossero eventi di un passato sbiadito che riguardava qualcun altro.
Non lo sono, ovviamente, così come non lo è la vita di Franco Berti, l’ultimo sopravvissuto della cooperativa Vapordotti. Ha 79 anni e vive a Montecerboli, a due chilometri dalla centrale in cui ha lavorato fino al 1992. Berti passa le notti insonni. Ha i polmoni intasati da 1.600 fibre di amianto e un quarto delle piastrine di una persona sana.
Nel 2007 gli è stato rilasciato il referto che certifica la presenza di placche pleuriche bilaterali “in parte calcificate” e nel 2012 l’Inail ha dovuto riconoscergli la malattia professionale e risarcirlo. I due cicli giornalieri di inalazioni a base di cortisone gli danno un sollievo momentaneo ma, appena si stende a letto, gli sembra di soffocare. Allora si alza e spalanca le finestre. Fuori, le ultime case in pietra del paese lasciano spazio ai campi e ai vapordotti che declinano verso le torri di Larderello. In cielo, eserciti di cirri si rincorrono senza sosta. Non è facile distinguere le nuvole dai vapori delle centrali. Eppure è tutto lì.
Da sapere
L’amianto (o asbesto) è un materiale fibroso, costituito da fibre minerali naturali. Usato principalmente come isolante, nel 1992 è stato riconosciuto come agente cancerogeno. Secondo gli ultimi dati del ministero della salute, è stato trovato in più di 34 siti in tutta Italia. Tuttavia, la mappa non è completa, perché mancano le informazioni sulla Calabria, la Sicilia e la Campania. La maggior concentrazione è nelle Marche e in Abruzzo. Le tonnellate di amianto che devono essere ancora bonificate sono 32 milioni. Tra le patologie correlate ci sono l’asbestosi polmonare, i tumori ai polmoni, alla faringe, alla laringe, il mesotelioma pleurico.
Questo articolo è stato pubblicato dal Internazionale il 3 aprile 2018

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