Nuovo dizionario delle parole italiane: impatto ambientale e dintorni

27 Marzo 2018 /

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di Cristina Biondi
Dal «Nuovo dizionario delle parole italiane».
Impatto
Sostantivo maschile (l’agente dell’azione d’impatto è invariabilmente di sesso maschile) il cui primo significato è: punto d’incontro del proiettile con il bersaglio. In senso figurato significa urto, cozzo violento, botta, collisione.
Impatto ambientale
Il concetto nasce in America negli anni Sessanta, un po’ tardi, dunque, per valutare preventivamente l’impatto ambientale di un paio di cosette già fatte e mai sconfessate. La prima regola, deducibile dagli sviluppi storici a livello internazionale, è che la valutazione dell’impatto ambientale è fortemente condizionata da dove si trova casa tua. Purtroppo l’italiano tende a interpretare alla lettera il concetto di casa e perimetra le aree protette considerando solo l’estensione della propria abitazione (sindaci compresi).
I lungimiranti ci sono e si dividono in due categorie: quelli che fanno danni lontano da casa e quelli che sono disposti a trasferirsi, una volta devastato l’esistente intorno a sé. Far danno lontano da casa è appannaggio delle grandi potenze e più in generale di chi può disporre di capitali e risorse ingenti, chi fa danno a casa propria spera che le sue azioni sconsiderate ricadano soprattutto sul vicino, di modo che il suo prato non sia più così verde.
I rappresentanti di entrambe le categorie di devastatori (ecologici) tendono ad allearsi tra loro e producono sinergie in nome di quel progresso nella cui pubblica utilità non crede più nessuno, loro compresi. Essi tacciano i loro oppositori di oscurantismo, soprattutto perché costoro vorrebbero evitare di morire di una malattia moderna come il cancro e preferirebbero, se fosse ancora possibile, patologie più banali, come la polmonite o la decrepitezza.

Dal momento che la morte naturale offre pochi spunti alla ricerca, mentre al cancro sono dedicati ingenti fondi e lo sforzo congiunto di un esercito di ricercatori, non è accettabile che qualcuno desideri sottrarsi agli sforzi dell’intera società, per morire, da anacronistico individualista, di vecchiaia.
Basso impatto ambientale
Il “basso” si offre a varie interpretazioni. Se per basso s’intende «scarso, irrilevante» si torna al concetto, scientificamente provato: più l’impatto avviene lontano da casa mia e più è trascurabile (da me, dai miei stipendiati e dai sindaci e amministratori compiacenti). Basso significa: irrilevante, se statisticamente l’aumento del cancro o di altre patologie causate dall’impatto non supera una determinata soglia. Va osservato che la cancerogenesi non è un processo democratico ed egualitario: se un agente cancerogeno provocasse in tutti i cittadini un 2% di tumore, allora il danno alla salute sarebbe veramente trascurabile, tenuto perfettamente sotto controllo dalle difese immunitarie.
Invece la Natura, o Chi per Essa, non ha stabilito così: il 2% della popolazione si ammala e muore. Il restante 98% dei cittadini comprende un numero così elevato di menefreghisti, qualunquisti, fatalisti, depressi e ignoranti che non è difficile per nessuno sdoganare il concetto di basso impatto ambientale (vedere alla voce «Sfigati» per perdere ogni illusione su una società basata sul mutuo soccorso).
“Basso” può essere inteso anche in riferimento al luogo dell’impatto, in questo caso il termine avrebbe lo stesso significato che ha nell’espressione “colpo basso”. Detto fuor di metafora e senza ricorrere a volgarità, vivere accanto a un impianto a basso impatto ambientale corrisponderebbe perfettamente al “prenderselo a bottega”. Una volta che vi hanno rovinato casa e bottega non vi resta che ridere di tutto cuore, cantando tutti insieme: “povero re e povero anche il cavallo!
Edilizia
La categoria degli edili è l’ultima roccaforte del potere maschile. Se vi recate in un cantiere, trovate solo e soltanto uomini. Le donne sono subdolamente penetrate in tutte le altre roccaforti, non c’è mestiere o corporazione che non sia stato infiltrato dalla presenza, non sempre simbolica e irrilevante, di professioniste o operaie. Il fenomeno non è ancora stato studiato, ma sembra che l’unica struttura che abbia saputo formare anticorpi e rigettare, o emarginare, le poche femmine accettate in un primo tempo nei ranghi, sia l’esercito. Gli edili non hanno mai avuto problemi: nessuna donna si è mai presentata nelle sedi di reclutamento per rivendicare mattone e cazzuola.
L’edilizia pubblica è riuscita a limitare al massimo la committenza femminile: imprenditori, faccendieri, mafiosi e politici che agiscono nel settore sono ancora uniti dai profondi vincoli del potere virilmente sottratto alle masse, mentre l’edilizia privata è fortemente pressata dalle pretese di mogli, madri e clienti (plurale femminile: le clienti). Non meraviglia se in questo campo siano state fatte delle concessioni, per lo più su accessori e rifiniture: ormai è consuetudine che le signore scelgano le mattonelle del bagno, sottraendo a questo ambiente quell’essenzialità che si confaceva alla bassezza delle funzioni escretorie, ancora rispettata negli ambienti di degrado autorizzato, rappresentati dai cessi pubblici, ove al maschio è permesso farla franca se, urinando, non centra la tazza del cesso.
Abuso edilizio
Ove non si pongano limiti all’esuberanza maschile, la forza e l’arbitrio regnano sovrani. Ma sarebbe un errore attribuire ad acritica tracotanza la bruttezza delle moderne costruzioni di edilizia, pubblica e privata, quasi che abuso e stupro fossero, anche nel campo dell’edilizia, sinonimi.
L’aspetto delle case costruite negli ultimi settant’anni è vistosamente in contrasto con la bellezza dei più vari contesti ambientali e in tutta la penisola il minimo comun denominatore è rappresentato dalla presenza di balconi e balconcini che aggettano in tutte le direzioni. Gli edili sembrano ignorare tanto la storia dei luoghi, concretamente rappresentata da sobri edifici, solidi e per lo più privi di balconcini, quanto l’armonia che la vegetazione, spontanea o coltivata, dona agli italici paesaggi.
Non si può, oltre un certo limite, invocare la necessità di un’edilizia popolare, che porta con sé il radicato pregiudizio che la Bellezza è per i pochi ricchi e la Bruttezza per i molti poveri, pregiudizio che è comunque uscito vittorioso dal confronto con le più svariate e poetiche utopie.
La spiegazione più convincente, in grado di render conto della dilagante bruttezza, si rifà invece alla teoria del Grande Trauma, all’ombra che esso continua ad allungare nel tempo, contrastando la solare semplicità che ha da sempre accompagnato la bellezza mediterranea. Il Grande Trauma ha fatto sì che su ogni costruzione, sin dal suo nascere, incomba il rischio di una distruzione totale che, precipitando dall’alto, è più implacabile dei cicloni, dei venti e dei nubifragi.
Gli edili, formando una corporazione di soli uomini, hanno, se pur a un livello inconscio, maggior timore della possibilità che il Grande Trauma si ripeta rispetto alle loro compagne, meno dedite a fantasie distruttive auto ed eterodirette, e con virile sacrificio s’incaricano di siglare col marchio della Bruttezza ogni esterno di edificio (esistono anche esterni piastrellati, ma ci si guarda bene dal far uso di azulejos o di far scegliere le piastrelle alle signore).
L’esercito dei costruttori non sottovaluta la maggior potenza, rapidità e determinazione dell’esercito dei distruttori, e la Bruttezza dilagante è la bandiera bianca issata per propiziare se non la clemenza, almeno il disinteresse dei futuri aggressori, la cui smisurata potenza di fuoco rende ragionevole e auspicabile una resa preventiva. Così quello che sembra uno stupro dell’ambiente perpetrato dagli edili, rappresenta un estremo tentativo di difesa, attuato con l’accortezza un padre amorevole che si rallegri della mancanza di attrattive di una figlia esposta dall’arbitrio dell’esercito invasore.
Una casetta mal costruita nella Valle dei Templi potrebbe attirare su di sé le bombe e al suo sgretolarsi seguirebbe in breve tempo la rassegnazione (tanto era umida e nemmeno bella), soprattutto se, grazie a essa, le antiche e venerabili rovine potessero preservarsi intatte. Ovunque si cerca l’anonimato, sperando che l’irrilevanza e la banalità proteggano meglio di una tuta mimetica, e se il Grande Trauma sembra allontanarsi nel tempo, la distruzione delle torri gemelle e del ponte di Mostar conferma quanto sia rischioso attribuire ai luoghi un alto valore simbolico.
Lavoro
Sostantivo maschile, il cui significato nei primi anni della nostra vita è stato: assenza giustificata. Ai miei tempi si assentava il padre, attualmente si assentano il padre e la madre, in alcuni casi anche il nonno e la nonna (vedi alla voce: pensione posticipata). In età scolare imparammo a memoria, come si trattasse di recitare il catechismo di Pio X e non il primo articolo di una costituzione laica, che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Gli insegnanti che volevano andare oltre il precetto di fede, stimolando negli alunni la capacità di elaborare pensieri astratti, avevano da render conto del significato delle tre parole chiave: Italia, repubblica e lavoro.
L’Italia era ed è tuttora la nostra Patria. La nostra Patria, così com’è oggi, non è sempre esistita e non è sempre stata una repubblica. Il lavoro invece esiste dalla notte dei tempi, come conseguenza del peccato originale. Quindi, ancorare una Patria di recente acquisizione, divenuta repubblica in tempi ancora più recenti, a un fondamento così antico sembrava prometterle un futuro imperituro, anche se impegnativo. Nessuno avrebbe mai immaginato che il lavoro fosse destinato a sottrarsi al suo ruolo di sicuro fondamento per diventare un miraggio evanescente.
Un tempo, prima della globalizzazione e della delocalizzazione, si riteneva che le macchine, fedeli esecutrici di mansioni noiose e ripetitive, fossero destinate a sgravare l’uomo da ogni fatica, rendendolo padrone del suo tempo. Oggi qualcosa si è inceppato negli ingranaggi del progresso e da parte di tutti i cittadini viene avvertita la mancanza di un fondamento sicuro, come se si fosse prodotto un vuoto strutturale all’interno della società: mentre i lavoratori sono sempre più assenti dalle loro famiglie, l’assenza di lavoro minaccia di decontestualizzare del tutto individui che trovano in famiglie nucleari, sparute e divise, l’unica prospettiva di sostentamento.
Il futuro dell’Italia e della democrazia è incerto, affidato a lavoratori attempati che non riescono a passare il testimone a figli e nipoti disoccupati e privi di una qualsiasi esperienza di apprendistato. Che si modifichi o meno la Costituzione, l’Italia è diventata una repubblica basata sui consumi, nella speranza che i beni di consumo rimangano accessibili ai più.
Lavoro nero
Il lavoro nero rappresenta un tentativo, riuscito su larga scala, di sottrarre alla repubblica (fondata sul lavoro, nero o bianco che sia) quella parte dei proventi del lavoro altrui che dovrebbe rappresentare una garanzia per il futuro. Il lavoratore “usa e getta” è costretto a sacrificarsi per implementare la ricchezza d’imprenditori, faccendieri e artigiani che a loro dire sarebbero perennemente sull’orlo dell’indigenza (notizia confermata dai loro commercialisti) e si trova così sprovvisto di mezzi per affrontare la vecchiaia, che, da quando è diventata una faticosa stagione di lunga durata, scoraggia chiunque a ridurre in schiavitù uomini giovani e prestanti, la cui attuale condizione di liberi cittadini implica che dovranno cavarsela da soli in tutte le età della vita. Lo spettro di una vecchiaia dolente e triste affligge anche i datori di lavoro che sperano che l’ingiustizia da loro perpetrata continuativamente, anno dopo anno, propizi per loro un destino di morte improvvisa e prematura (che sopraggiunga cioè nel corso dell’ottantesimo anno di età).
Ciò raramente avviene perché le parche, ascoltando le suppliche dei lavoratori in nero, non tagliano precocemente il filo dell’esistenza di chi merita di sperimentare la gotta, il diabete con relative complicanze, l’obesità, la cirrosi e la demenza alcooliche, i postumi di incidenti causati dall’eccessiva velocità di vetture sportive, le malattie veneree e tropicali, l’infarto (o ancora meglio, il reinfarto) sopraggiunto per un’incauta assunzione di Viagra e la necrosi del setto nasale da uso continuativo di cocaina.
Patria
A scuola abbiamo imparato che la Patria è l’orizzonte dei nostri affetti. Il concetto così espresso rende problematico definirne i confini geografici, classicamente la Patria è come la famiglia d’origine, ci nasci ed è scontato che tu le voglia bene e che lei sia identificabile con lo stato nel quale tu sei venuto al mondo, con le sue montagne e i suoi laghi molto, ma molto più vecchi di te. Il principale dovere nei suoi confronti è difenderla, anche a prezzo della vita.
La necessità di attestarsi su posizioni che consentano una coerente strategia difensiva ha comportato un fondamentale arretramento delle linee di trincea, sino a quando si è stabilita una perfetta coincidenza tra la Patria e la propria entità fisica: la Patria si estende dalla testa ai piedi. I progressi in genetica, microbiologia e scienze affini hanno causato un’espansione dello schema corporeo, che, ricostruito a partire da immagini ricavate al microscopio elettronico, assume dimensioni planetarie, di gran lunga superiori a quelle di qualsiasi entità nazionale. Le potenze che rischiano di invaderci sono batteri e virus, questi ultimi con strutture del tutto simili a navicelle spaziali.
Anche il profano può rendersi conto della vastità del territorio da pattugliare, verificando in una qualsiasi farmacia il numero praticamente infinito di creme, unguenti, lozioni e polveri che hanno la funzione di proteggere gli strati cutanei dagli agenti esterni quali i raggi solari e la spore fungine.
Convivenza civile
Se la Patria coincide con il nostro corpo, la nostra città, un tempo amata come luogo di condivisione e identità collettiva, è diventata terra di confine. Carte, cartine e cartacce vengono gettate ovunque, negli angoli, ma anche al centro della strada, sui cespugli, più o meno fioriti, di misere aiuole che nessuno si prende la briga di curare, il più delle volte dotate di marcescenti teli antiricrescita e tubi a vista mai collegati a fantomatici sistemi di irrigazione.
A questo scopo le sigarette e un infinità di oggettini insignificanti vengono venduti con involucri, a volte con più involucri concentrici, e i cibi hanno contenitori usa e getta di plastica per alimenti e per marciapiedi. Ovunque compaiono manifesti che pregano gli amanti degli animali di raccogliere gli escrementi canini, ma non tutti amano i propri concittadini. A poco prezzo si può acquistare l’arma più micidiale che abbiamo a disposizione per manifestare il disprezzo nei confronti della comunità: la gomma americana. Essa permette ai vostri sputi di diventare una macchia nera e indelebile su asfalto, marmo o pietra.
Ambiente
L’ambiente ci circonda da tutti i lati, è ubiquitario e la sua presenza è stata notata, distinguendolo dal paesaggio, da quando sentiamo il rischio che gli squilibri in esso prodotti attentino alla nostra vita. Potenzialmente amico, con una forte vocazione all’accoglienza, prevede aree storicamente ostili, pericolose, come la giungla o il Polo nord e aree di difficile accesso, come i fondali marini. Ha una caratteristica che lo rende incomprensibile alla mente umana: è in profonda connessione con se stesso non solo sul globo terrestre, ma anche nell’universo.
Barriere e confini naturali esistono solo nella mente di esseri limitati e distruttivi quali noi siamo. Il continuo sforzo di sfruttarlo, modificarlo, inquinarlo porta conseguenze molto più vaste del previsto, se poi ammettiamo che i nostri istinti predatori ci portano a persistere nelle nostre azioni a prescindere dalla percezione di fame e sazietà, dobbiamo riconoscere che il nostro attentare agli equilibri ambientali è iniziato quando abbiamo scoperto armi di offesa più efficaci dei nostri denti.
Degrado ambientale
È in atto un tentativo su vasta scala di applicare all’ambiente quello sfruttamento, frammentazione e lottizzazione che rappresentano l’ossessione di ogni faccendiere, incapace di interrompere il moto perpetuo di un fare miope e distruttivo. Uroboro, il serpente che si mangia la coda, simbolo di un potere in grado di rigenerarsi, garante d’immortalità, è stato sostituito da un orologio di gran marca, il cinturino estensibile permette di infilarlo al polso: segna un tempo inesorabilmente progressivo, mentre la voracità oggi porta i potenti a non riconoscersi nell’organismo collettivo e, divorandolo a partire dalla coda, dalle località più remote sono giunti a fagocitarne anche la testa. Per accedere all’immortalità bisogna sapersi nutrire di se stessi, delle proprie emozioni e sentimenti, in un equilibrio che deriva dal riconoscere che l’eccessivo appetito è pericoloso per la propria sopravvivenza.
Distruzione dei beni comuni
Siamo annichiliti dalla distruzione d’importanti siti archeologici perpetrata i giovani di altre culture.
I nostri ragazzi sono altrettanto distruttivi, ma non essendo abbastanza maturi per confrontarsi, armi in pugno, con le soverchianti truppe dei conservatori o aspiranti tali, operano solo di notte e distruggono senza abbattere, senza far rumore. La loro arma non è la bomba, ma la bomboletta spray, assai più facile da maneggiare e senza rischi per la propria incolumità. Sono gli eroi del non senso, scrivono frasi incomprensibili, forse rivolte ad alieni presenti o futuri. I proprietari di muri e saracinesche li considerano dei vigliacchi, ma non è così: dimostrano di affrontare e sopportare stoicamente il dolore scrivendo anche sul proprio corpo, con inchiostri indelebili.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta Online il 22 marzo 2018

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