Macerata / 2 – Neofascismo e razzismo: il problema è (anche) antropologico e culturale

7 Febbraio 2018 /

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di Sergio Sinigaglia
La tentata strage di Macerata da parte del nazifascista Traini, ci ha lasciati ammutoliti, sgomenti. Non è la prima volta che accade un fatto simile. Già sette anni fa a Firenze si era verificato un episodio quasi analogo, e lungo la Penisola agguati, violenze nei confronti di migranti si sono sussuguiti e si ripetono in modo sistematico. Ma è evidente che l’aggressione armata di sabato, calata nel contesto attuale, segna inevitabilmente un salto di qualità, anche dal punto di vista simbolico.
Un fascista dichiarato, gira per una piccola città la quale neanche negli anni Settanta, aveva mai vissuto tensioni di questa portata, e cerca sistematicamente di uccidere persone di colore. Macerata come una qualunque località del Missisipi o dell’Alabama. In queste ore diversi commenti, editoriali, si interrogano sul perché siamo arrivati a questo punto. Tralasciamo quelli ipocriti delle maggiori testate che abitualmente fanno a gara per lanciare proclami, allarmismi, contro i flussi migratori e si spellano le mani nei confronti dei provvedimenti dell’ineffabile ministro Minniti.
Altri commentatori invece hanno rammentato il processo di sdoganamento, culturale, oltre che politico, nei confronti dell’estrema destra. E hanno ragione. È bene ricordare che il primo artefice fu Bettino Craxi con la presenza al funerale di Almirante, inizio di un clima rispettoso nei confronti del partito erede del periodo mussoliniano, il cui simbolo era la fiamma tricolore che risorgeva dalle ceneri della Repubblica di Salò.

Si è poi proseguito con l’abbraccio di Berlusconi nei confronti di Fini e dei suoi accoliti, fino ai “ragazzi di Salò” di Violante, al mielismo di Veltroni, ai libri di Pansa, alle fiction televisive, ai “crimini dei partigiani”, alle menzogne su via Rasella, tutto attraverso lo svuotamento dei principi costituzionali.
L’elenco è lungo, purtroppo. E sullo sfondo una società sempre più involuta, dove dilagavano individualismo, disgregazione, smantellamento della tutele. Una società, si sottolinea, “impreparata a sostenere il flusso migratorio” degli ultimi decenni. Una società, aggiungiamo, dove la centralità del profitto, del Mercato, del capitalismo ormai senza più freni, hanno iniziato a imperversare. Tutte cose vere e condivisibili. Ma…C’è un ma. C’è un aspetto della questione che a mio avviso andrebbe approfondito, analizzato, tenuto al centro del confronto.
Un aspetto che prima che politico, sociale, è essenzialmente, direi strutturalmente, antropologico e culturale. Se oggi il neofascismo è così spudoratamente agguerrito, arrivando addirittura a rivendicare dopo poche ore il raid terroristico di Macerata, è perché c’è un contesto che glielo consente. E non mi riferisco a quello politico-istituzionale, da tempo consolidato, basti pensare, per non andare troppo indietro negli anni, alla vergognosa gogna a cui sono state sottoposte questa estate le ONG che meritoriamente cercano di salvare le vite di chi emigra in condizioni drammatiche.
Il problema è che tendenzialmente la xenofobia, il razzismo, o comunque l’insofferenza nei confronti di chi oggi condivide sempre più con noi la vita nelle nostre città, di chi bussa alle nostre porte in fuga da guerre, fame, mutamenti climatici, sono egemoni.
Negli anni Settanta, il neofascismo era ben presente nel nostro Paese. Il MSI era il quarto partito, dopo DC, PCI e PSI. Nelle elezioni del 1972 ottenne l’8,7%. Quattro anni dopo, nella tornata elettorale che sancì il duopolio tra democristiani e comunisti, calò di un paio di punti, ma mantenne la posizione. La piccola differenza è che ci trovavamo di fronte ad un’isola neofascista, circondata da un mare in cui l’antifascismo, nelle sue varie versioni, più tiepido o più intransigente che fosse, era tendenzialmente maggioritario.
Lo era dal punto di vista politico, ma anche culturale e direi antropologico. Nonostante il filo nero di continuità negli apparati statali caratteristica peculiare del passaggio dal ventennio alla Repubblica. Oggi la netta impressione è che la situazione sia completamente rovesciata. Il diversificato mondo fatto di centri sociali, associazioni di base, pezzi di sindacato, soggetti del volontariato cattolico e laico, è l’isola circondata da un sempre più minaccioso mare di indifferenza, paura, intolleranza, fino a vere e proprie manifestazioni diffuse di razzismo.
Pensiamo, tra i tanti esempi, alle ormai abituali proteste di residenti delle varie località quando si trovano di fronte alla possibilità di dover ospitare sul proprio territorio dei profughi. Anche se si tratta di piccoli nuclei, magari composti da donne e bambini, e non di diverse decine di persone, come a volte fanno le autorità preposte. Pietà l’è morta…
Quando a Fermo fu ucciso Emmanuel, la città reagì con fastidio misto a rancore. Non ci furono indignazione, rabbia davanti all’omicidio. La preoccupazione maggiore era il buon nome della città infangato dall’attenzione mediatica prima e dalla “calata dei manifestanti” poi. Angelo Ferracuti, fermano doc, documentò efficacemente gli umori dei sui concittadni. Allora si disse che Fermo “non era più la stessa di un tempo”, che si trattava di una comunità che gradualmente aveva perso la propria tradizione democratica e antifascista.
Domenica a Macerata, alla manifestazione convocata con un originale tam tam telefonico, in piazza c’erano poco più di cinquecento persone. Non poche arrivate da fuori. Il sindaco Pd non si è visto. Come del resto non risulta che le massime cariche dello Stato abbiano fatto visita ai feriti. La sensazione era di trovarsi di fronte agli stessi umori fermani. Ciò che un caro amico ci ha riferito sulle discussioni nei bar e nei negozi è simile ai commenti ascoltati a Fermo nelle ore successive all’uccisione di Emmanuel.
Fermo, Macerata, sono la punta di un iceberg. Microcosmi che rappresentato la tendenza generale. Speriamo che sabato prossimo saremo smentiti. E in ogni caso è certamente fondamentale ribadire con la presenza in piazza la nostra intansigenza nei confronti di razzismo, xenofobia, fascismi vari, ogni volta si palesino. E’ fondamentale rintuzzare le iniziative dei gruppi squadristi. Ma la vera e propria emergenza democratica e di convivenza civile che stiamo vivendo, ancora prima che politica e sociale, è appunto antropoligica e culturale. Scrive Guido Viale in “Slessico familiare”: “Dal razzismo nessuno è immune.
Lo succhiamo come il latte materno.Lo assorbiamo come l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione” e aggiungo io educazione. Da qui dovremmo ripartire.
Questo articolo è stato pubblicato dal sito www.arvultura.it

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