Le liste di Renzi per preparare quello che sarà il dopo Pd

30 Gennaio 2018 /

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di Paolo Branca
Premessa: in ogni elezione ci sono scelte discutibili, esclusioni eccellenti, favoritismi, territori discriminati, e fioccano gli appelli per recuperare questo o quel candidato. Dunque – sotto questo aspetto – nulla di nuovo accade a sinistra. Eppure – soprattutto in casa PD – si ha la sensazione che queste elezioni, queste liste, questa campagna elettorale, non siano esattamente come le altre del passato. Mai forse un leader aveva esercitato un dominio così schiacciante sul resto del partito: un leader per giunta al minimo della popolarità, reduce da quasi quattro anni di brucianti sconfitte elettorali.
Certo, i partiti contano sempre meno. Incidono pochissimo nella società. E i vecchi rituali della politica – soprattutto quando si devono scegliere i candidati da eleggere in Parlamento e nelle istituzioni – appaiono fuori dal tempo, esercizi frustranti e logoranti. Ma qual è l’alternativa? Un capo che decide tutto nella sua ristretta cerchia. A cui basta un viaggio elettorale in treno per selezionare una classe dirigente. Che affronta le altre componenti del suo partito con malcelato fastidio, anzi “col lanciafiamme”.

Un modello di questo tipo esiste in Europa ed è anche sulla breccia: quello di Emmanuel Macron. Che proprio per liberarsi di brand perdenti e vecchi rituali, un paio di anni fa ha abbandonato il Ps e fondato un nuovo movimento: En marche. Ovvero, un nuovo partito, ma a sua immagine e somiglianza, privo di componenti, oligarchi e oppositori. Operazione riuscita, si direbbe. Anche se, nonostante il valore e l’abilità del nuovo presidente francese che costituisce oggi con Angela Merkel il maggiore argine ai populismi europei, il suo peso in Francia è piuttosto relativo: a votarlo nel primo turno delle presidenziali, furono meno degli elettori dei nostri 5 Stelle.
È questa la direzione intrapresa, anche con le liste elettorali, da Matteo Renzi? Il solo fatto che questo scenario venga evocato e non seccamente smentito – anzi tanti candidati renzianissimi lo teorizzano ormai apertamente – dovrebbe allarmare non poco il PD, ancor più delle esclusioni più o meno eccellenti. Ma se l’approdo è il “modello Macron” , se si ci si sta convincendo che il brand PD non tira più esattamente come quello dei socialisti francesi, si ha il dovere di dirlo per tempo. Per rispetto degli elettori e dei compagni di partito. Per dovere di trasparenza. Esattamente come ha fatto Macron con i suoi ex compagni socialisti.
Naturalmente non è che dalle altre parti sulle liste elettorali le cose vadano meglio. Tutt’altro. I 5 Stelle con la beffa delle “parlamentarie” si confermano una setta dove la trasparenza è vietata. Le candidature di Forza Italia – come ogni cosa di Berlusconi – hanno un prezzo: 30mila euro a deputato, col coinvolgimento magari di sponsor che poi andranno adeguatamente ringraziati. E anche l’esordio di Leu nella contesa elettorale appare segnata da non poche contraddizioni, a cominciare dai parlamentari uscenti imposti ai “territori”: la rinuncia di uno dei candidati di maggior valore, il medico di Lampedusa, Pietro Bartolo, dovrebbe essere valutata come un segnale di allarme.
Ps: ma perché far eleggere Maria Elena Boschi dagli elettori della SVP anziché dai suoi compagni democratici? Che esempio di coerenza si dà? Se si ritiene giustamente che la sottosegretaria sia stata sottoposta ad un attacco strumentale e anche sessista sulla vicenda delle banche, perché non candidarla a testa alta nella sua terra?
Pps: se Gianni Cuperlo rinuncia al seggio (quasi certo) di Sassuolo perché i democratici di quel collegio non sono stati coinvolti nella scelta, sicuramente a Sesto Fiorentino (seggio altrettanto certo) hanno chiesto a gran voce di poter candidare il romanissimo Roberto Giachetti, in Parlamento già da 18 anni. Certo i casi simili abbondano, ma diventano stridenti quando si predica il rinnovamento e il rifiuto dell’attaccamento al potere.
Questo articolo è stato pubblicato da StrisciaRossa.it il 29 gennaio 2018

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