"Buona Scuola", il re è nudo: appello per la scuola pubblica

11 Gennaio 2018 /

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di Anna Angelucci
Il 2018 si apre con un importante appello della scuola pubblica, per la scuola pubblica. Un appello che ha già raccolto, in pochissimi giorni e con il solo passaparola, più di 7000 firme ma che chiede e merita l’attenzione di tutti.
Qualunque lavoro facciate, qualunque attività svolgiate, qualunque interesse o passione abbiate, leggetelo: riguarda ogni singolo cittadino italiano. E, se condividete l’esigenza di una riflessione critica sul ruolo e sulla funzione della scuola, una riflessione critica profonda sui cambiamenti istituzionali imposti dalla politica negli ultimi anni al sistema dell’istruzione, firmatelo.
E’ un appello pacato e incisivo, ponderato e argomentato, nutrito di pensieri – e non di slogan – che vanno al cuore delle questioni più cogenti e urgenti; scritto da chi insegna nella scuola e sperimenta insieme agli alunni, giorno dopo giorno, le drammatiche conseguenze degli interventi normativi degli ultimi anni, svelandone tutte le implicazioni culturali, pedagogiche, professionali, al di là della retorica e della mistificazione imperanti nel discorso pubblico ufficiale.
Questo appello mostra tutta la gravità della situazione in cui versa la scuola pubblica italiana oggi e costituisce un’opportunità di reazione preziosa, da non lasciarsi sfuggire. Perché il vero problema di questi anni, prima ancora dell’assenza di un’interlocuzione politica realmente disponibile all’ascolto e al confronto dialettico, è stato quello della mancanza di una reazione forte e unitaria da parte del mondo della scuola e della società civile.

Se i docenti avessero reagito massicciamente fin dalla presentazione in video della ‘Buona scuola’ e poi, a partire da giugno 2015, un mese prima dell’approvazione della legge, aderendo unanimi al blocco degli scrutini indetto dai sindacati di base dopo lo sciopero ‘epocale’ del 5 maggio; e se il 9 luglio 2015, giorno dell’approvazione definitiva della riforma, a Roma sotto il Parlamento fossimo stati un milione, quanti siamo in Italia, e non solo due-trecento, quanti eravamo, la legge non sarebbe stata approvata.
Ma sappiamo bene perché non è andata così: i docenti sono per natura obbedienti e fiduciosi, tanto più nei confronti di un governo, nell’immaginario collettivo, tradizionalmente ‘amico’; la Cgil ha aderito allo sciopero ‘epocale’ solo perché costretta, per non perdere, sul momento, credito e posizionamento rispetto ai sindacati di base. Ma lo ha fatto obtorto collo, perché già il giorno dopo firmava accordi, proponendo inefficaci soluzioni tampone su questo o quel provvedimento insito o collegato alla legge di riforma.
Del resto, molti aspetti della 107, in primis l’alternanza scuola-lavoro, ma anche la gerarchizzazione delle funzioni, i bonus e il maggior potere dei dirigenti, la Cgil li ha sempre sostenuti, a dispetto della loro matrice confindustriale. Così come i test Invalsi – quel termometro spuntato che misura la febbre delle competenze con cui, a scuola, si vogliono sostituire cultura e saperi critici – contro i quali non ha mai indetto uno sciopero. Del resto, nella riforma era stata astutamente incardinata l’assunzione di migliaia di precari, anche quelli inseriti in graduatorie a esaurimento di materie che non corrispondevano più a reali esigenze delle scuole, posto che nella scuola servano ancora insegnanti e non flessibili factotum.
Come opporsi a tale insperata manna? Coronata, in conclusione, dal più ambito dei riconoscimenti: senza dover attendere una poltrona in Parlamento per l’avanzamento di carriera del segretario di turno, la Cgil ha ottenuto direttamente in premio il ministero dell’Istruzione, offerto a chi, piuttosto che studiare e imparare tra i banchi e sui libri, ha fatto del sindacato la sua scuola, e senza una punta di rammarico. Davvero la quadratura del cerchio.
In pochi, nel 2015, hanno capito che la posta in gioco con la 107, dopo vent’anni di autonomia ovvero di progressiva trasformazione dell’istituzione scolastica in azienda privata a partecipazione statale, era la fine della scuola pubblica. E molti docenti non lo hanno capito neppure dopo, quando è fallita la campagna per i referendum abrogativi anche perché sono mancate le loro firme. Ma adesso il re è nudo. La legge ha mostrato in un paio d’anni i suoi effetti perversi sul lavoro degli insegnanti, sulla formazione degli studenti, sull’organizzazione stessa di ogni singola istituzione scolastica, laboratorio, insieme all’università, di quella raccapricciante trasformazione manageriale del mondo contemporaneo che va sotto il nome di ‘governance’.
Questo appello è davvero un’occasione preziosa. Ci invita a riflettere sul significato della scuola come luogo di formazione di esseri umani nella relazione empatica con altri esseri umani e non come luogo di sperimentazione di nuovi modelli antropologici funzionali al mercato globale. Leggiamolo, comprendiamolo, firmiamolo, diffondiamolo. Sarà la prima questione, ineludibile, che come società civile porremo alla ministra o al ministro che verrà.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online l’8 gennaio 2018

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