Suburbicon: un film sul passato per i dilemmi del presente

4 Dicembre 2017 /

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di Dario Zanuso e Aldo Zoppo
Suburbicon, di George Clooney, Usa 2017
Siamo negli anni Cinquanta del secolo scorso, nel pieno del periodo di crescita economica e di diffusione del benessere successivo al secondo conflitto mondiale. Suburbicon è uno di quei quartieri dorati, sorti ai margini delle città americane, nei quali si trasferiscono i membri della borghesia più facoltosa, rigorosamente bianca. Li abbiamo visti in tanti film, tanto che ci appaiono quasi familiari: ordinate e linde casette a schiera (tutte uguali), circondate da giardini perfettamente curati e vialetti percorsi da fiammanti Cadillac o Buick. Qui tutto sembra scorrere nel migliore dei modi possibili.
Fino a quando la quiete del quartiere è turbata dall’arrivo di una famiglia di colore, sulla quale si concentra la diffidenza dei vicini. Il pregiudizio offusca la lucidità dello sguardo, e così sfugge quanto sta accadendo dentro una delle belle casette di Suburbicon, quella abitata dalla famiglia Gardner: un padre, stimato dirigente d’impresa (Matt Damon), una moglie (seduta su una sedia a rotelle dopo un rovinoso incidente), una cognata (entrambe interpretate da Julianne Moore) e un figlioletto.

Il padre, con la complicità della cognata, elabora un bel piano: liberarsi della moglie, intascare i soldi dell’assicurazione, mollare il figlio in un collegio militare e darsi quindi alla bella vita. Non tutto va nel verso giusto e ci scappa qualche morto ammazzato di troppo. La comunità è turbata dagli insoliti episodi di violenza e i sospetti si dirigono sul più facile e comodo capro espiatorio: la famiglia di colore. La diffidenza si converte in ostilità, la quale tracima infine in aperta e distruttiva violenza.
Il film nasce da una sceneggiatura scritta negli anni Novanta dai fratelli Coen, rielaborata dal regista con l’aiuto del suo storico sodale Grant Heslov, che hanno aggiunto al soggetto originale la parte relativa alla famiglia di colore, prendendo spunti dai fatti accaduti nel sobborgo di Levittown, in Pennsylviana, quando una famiglia di afroamericani si trasferì in un paradiso costruito e pensato per i bianchi.
Dell’idea originaria dei Coen resta ben forte il tono complessivo del film: una commedia nerissima sulla stupidità umana e sulla banalità del male (siamo dalle parti di Fargo, per intenderci). Una sorta di ironica e beffarda indagine antropologica sulle dinamiche morali che generano il conformismo. Clooney/Heslov hanno aggiunto il riferimento al razzismo strisciante presente, allora come ora, nel cuore della società americana.
È un film che guarda al passato, per raccontare di problemi e dilemmi ancora ben presenti. La rievocazione d’epoca è un pretesto per fare i conti con l’identità più profonda del paese di oggi, che ha contribuito a portare alla presidenza Donald Trump (quasi tutto il tanto cinema americano visto a Venezia, può essere visto anche come l’espressione della difficile elaborazione del trauma originato dalle ultime elezioni presidenziali). Da questa riflessione piuttosto sconsolata ed amara viene una sola nota di speranza. È rappresentata dai comportamenti del piccolo figlio dei Gardner. Socializza, unico tra i bambini del quartiere, con il figlio della famiglia di colore. Dietro una apparente introversione, che gli è rimproverata dal padre, il quale vorrebbe una maggiore integrazione con la comunità, si manifesta uno sguardo morale aperto verso il mondo e le sue ricchezze (e diversità), che rifugge dai pregiudizi e dalle paure più consolatorie.
Una nota a margine sugli attori: oltre a quelli già citati compare, per una decina di minuti, Oscar Isaac (già diretto dai Coen in A proposito di Davis), nei panni di un assicuratore (giustamente) diffidente. Se Clooney prova ad imitare i Coen, Isaac si (e ci) diverte, gigioneggiando con maestria, a recitare come il Clooney attore.

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