Per ricominciare serve un partito del lavoro

21 Novembre 2017 /

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di Aldo Carra
Quindi col 5% di ore lavorate in meno si è ottenuto un Pil inferiore del 5% a conferma che la produttività oraria è rimasta invariata. Il ritorno dell’occupazione ai livelli pre-crisi, perciò, è solo un effetto statistico della riduzione delle ore lavorate. Ovvero la quantità di lavoro necessaria si è distribuita su più teste.
Se tutto questo fosse accaduto per effetto di politiche di riduzione degli orari per redistribuire il lavoro e creare nuova occupazione saremmo di fronte ad un bel risultato e in procinto di realizzare il sogno di coloro che gridavano lavorare meno, lavorare tutti. Ma così non è stato e per capire cosa è accaduto dobbiamo esaminare un secondo aspetto, quello qualitativo.
Nel corso di questa crisi si sono accentuate alcune caratteristiche negative della nostra economia: si sono indebolite le grandi imprese manifatturiere e sono aumentate le piccole imprese nei servizi poveri. A questo processo di slittamento verso il basso della qualità del sistema produttivo si è accompagnato uno slittamento parallelo del lavoro: dal tempo pieno al part time (non a quello scelto, ma a quello imposto), dai contratti a tempo indeterminato a quelli a tempo determinato, dal lavoro stabile a quello precario. e così via.

Per capire meglio le conseguenze di questi processi, basta guardare i nuovi indicatori Ocse di Qualità e di Inclusione. I primi comprendono la qualità del reddito orario lordo e quella della protezione del Mercato del Lavoro (perdita monetaria associata a rischio disoccupazione, stress lavorativo come rapporto tra quantità di richieste e scarsità di risorse). I secondi, gli indici di inclusione, comprendono il tasso di persone a basso reddito, il divario retributivo uomo-donna, il divario nel tasso di occupazione per i gruppi svantaggiati. In tutti questi casi l’indicatore italiano è più basso di quello medio Ocse e, negli ultimi 10 anni, l’insicurezza nel mercato del lavoro e la quota di persone in età lavorativa che vivono in famiglie povere sono addirittura aumentati. In estrema sintesi il nostro paese esce da questa crisi con una produttività sempre stagnante (in genere le crisi producono una selezione delle imprese più competitive) e con un capitale umano svalorizzato.
Alcuni segmenti del mercato del lavoro hanno cercato di resistere difendendo quello che avevano faticosamente conquistato, altri hanno subito perdite quantitative e qualitative, altri ancora, soprattutto quelli che sono entrati in questi ultimi anni, hanno dovuto accettare condizioni di degrado, di precarietà e di sfruttamento sempre peggiori.
Il mondo del lavoro, così, si è frantumato come mai prima, i lavoratori si sono trovati sempre più soli, individui sperduti e sparpagliati in una colonna sociale che non marcia più in avanti, non crea più appartenenze e solidarietà, ma, al contrario, genera invidie sociali, disperazione, dispersione.
Non esiste più una classe che persegue interessi collettivi, ma singoli sballottati e disorientati tra chi lavora al loro fianco ed appare ai loro occhi un privilegiato e chi preme da fuori per offrirsi a condizioni addirittura peggiori.
Insomma la crisi sarà stata pure superata e ci sono più occupati, ma essi lavorano meno e stanno peggio. La crisi della sinistra è insieme causa ed effetto di questa mutazione. Quindi non ci sono scorciatoie elettorali ed organizzative che possano risolverla a breve. Né tanto meno si può pensare di risolverla senza rimettere il lavoro al centro.
I processi prima descritti impongono una strategia nuova, che agisca sugli aspetti oggettivi e soggettivi, sulla quantità e sulla qualità, una strategia composta di tanti passaggi: fermare lo scivolamento in basso, fissare una soglia di garanzie minime, salariali e di diritti elementari, con forti penalizzazioni per chi non le rispetta, scegliere veramente la riduzione degli orari di lavoro come strada obbligata per generare nuova occupazione, incentivare chi è occupato per compensare le perdite di salario da riduzione di orario, ed altro ancora.
In ogni caso si tratta di una strategia complessa che richiede, impegno, tempo, politiche nuove e soggetti politici nuovi. Da dove cominciare? Forse questa volta si potrebbe cominciare dal nome: Partito del lavoro.
Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto.it. il 19 novembre 2017

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