I diari di Bruno Trentin: il racconto di un periodo cruciale

10 Ottobre 2017 /

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di Luigi Agostini
La pubblicazione dei Diari di Bruno Trentin rivestono una straordinaria importanza. Per ieri e per oggi. Gettano un fascio di luce su un periodo cruciale, su orientamenti e scelte che hanno inciso e continuano a incidere in profondità sulla realtà italiana, dal ruolo e dal peso che nella storia del Paese hanno svolto e svolgono grandi organizzazioni di massa. Tra cui, indubitabilmente la Cgil.
I diari rappresentano un documento teorico, un itinerario strategico, in un frangente altamente drammatico: il collasso dell’Urss, lo scioglimento del PCI, la crisi italiana, la crisi di direzione della Cgil. Rappresentano anche un romanzo di vita e insieme ritratto della personalità intima dell’uomo: un uomo tormentato e in ricerca, ma profondamente solo, quasi esterno/estraneo alla propria organizzazione; nei diari – sorprendentemente per me-, non emerge mai, in termini psicanalitici, un riconoscimento dell’Altro e delle sue Ragioni, in uno stile polemico in cui il contradditore, interno o esterno alla Cgil viene normalmente declassato e moralmente squalificato. Sia, sia si tratti di Del Turco o Garavini, di Carniti o di Carli o Amato o Benvenuto. Per non dire del continuamente vituperato Bertinotti.
I diari sono concentrati su uno straordinario appuntamento dell’Uomo con la Storia. Un romanzo di vita di un dirigente straordinario, simbolo dell’autunno caldo, della FLM (il più grande incontro di massa della storia italiana tra forze cristiane e forze di orientamento socialista), del sindacato dei consigli; Un dirigente di primo piano della più grande macchina politica dell’occidente, il PCI togliattiano: non per caso riposa per sempre al Verano accanto ai massimi dirigenti del PC.

Un maestro per tanti. “Da Sfruttati a Produttori” per tanti giovani delegati e sindacalisti, è stato una specie di breviario nella propria educazione sentimentale. Il fascino di B. Trentin, in particolare per me, stava, in primo luogo nel fatto che Bruno Trentin impersonava meglio di qualsiasi altro, insieme a Sergio Garavini, quello di essere Homme de plume et Homme d’èpèe, uomo di riflessione e uomo di azione allo stesso tempo.
Purtroppo i diari saltano la vicenda di premessa al Trentin segretario generale :la vicenda della destituzione-destituzione è la parola tecnicamente esatta- di Antonio Pizzinato, fatto mai avvenuto in quelle forme nella storia della Cgil. Senza etica. Modo che a ripensarci ancor mi offende. L’asprezza della lotta politica, ma anche il suo carattere di scontro confuso e sanguinoso che ne seguì, in cui volta a volta si mescolavano e si confondevano ragioni diverse e opposte-dallo atteggiamento verso lo scioglimento del Pci al confronto sui caratteri della confederalità del sindacato -e che si sarebbero spesso giustapposti senza nessun ordine politico lineare, trovava nella vicenda che aveva portato poco prima alla elezione alla unanimita’ di A. Pizzinato alla segreteria generale e poi alla sua destituzione, la sua vera ragione fondamentale.
La destituzione di A. Pizzinato era avvenuta prima dell’esplodere dello scioglimento del PCI. I ruoli che tanti dirigenti massimi avevano svolto nella vicenda, compreso Trentin, il ruolo che svolse la segreteria di Occhetto, succeduto a Natta, avrebbe inquinato irrimediabilmente tutto il seguito della vicenda, compresa la stessa ascesa di Trentin a segretario generale, scatenando rancori e confusione, e impedendo di fatto, alle due ipotesi strategiche riguardanti il futuro della Cgil,-la rifondazione della Cgil proposta da Pizzinato o la proposta del Sindacato dei diritti che Trentin formulerà ‘ a Chianciano -di misurarsi in termini lineari e politicamente razionali e produttivi.
I diari sono un documento teorico di straordinaria importanza. A pagina 86 Trentin introduce con nettezza una coppia concettuale -sfruttamento e oppressione-sul cui irriducibile conflitto e alternatività si concentra tutta la sua elaborazione e da cui ne deriverà gran parte della sua impostazione politica e pratica concreta. A partire dal personalismo -quasi alla Mounier- proposto alla Conferenza di Chianciano in sostituzione del classico classismo-alcune volte elementare-e forse anche per questo obiettivo polemico di Trentin, della Cgil.
La novità stava nel rapporto antagonistico tra sfruttamento e oppressione. Sfruttamento e Alienazione del lavoro sono categorie centrali nella costruzione teorica di Marx. Per Marx, rappresentano le ragioni di fondo che reggono il discorso sulla necessità storica del superamento del capitalismo; Trentin introduce una” nuova” categoria, l’oppressione del lavoro. Tale categoria emerge dai diari con chiarezza inusitata.
L’oppressione del lavoro nella versione che ne dà Trentin, non è riducibile sic et simpliciter alla alienazione marxiana come si è facilmente portati a pensare ; mentre sfruttamento e alienazione nella visione di Marx si alimentano vicendevolmente, sfruttamento e oppressione del lavoro sono destinati,-sostiene invece Trentin- a un conflitto incomponibile, a generare un duello mortale tra l’anima libertaria, autogestionaria e l’anima statalista dell stesso movimento socialista.
Già da oggi, qui e ora nel capitalismo, ma anche nelle concrete esperienze storiche socialiste dove il taylorismo era stato adottato anche dagli epigoni di Lenin, collocando in un limbo insignificante e indifferente la stessa proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Da questo assunto teorico, Trentin ne fa derivare una alternativa molto netta sulla via da seguire: da una parte la via che ha a suo fondamento il concetto di lotta allo sfruttamento e a suo esito la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, ma in una sostanziale indifferenza alla questione della oppressione del lavoro; dall’altra una via autogestionaria e libertaria, che ha a suo fondamento invece la lotta alla oppressione del lavoro e i diritti del lavoratore come le armi della sua concreta autorealizzazione/autoliberazione; in questa seconda via, la questione della natura della proprietà viene confinata in un sfondo sostanzialmente irrilevante e tutto si concentra e si risolve nella quotidiana lotta della persona a rompere il cerchio della oppressione del proprio lavoro.
C’è molto più socialismo in una lotta contro l’oppressione del lavoro, arriva a dire a proposito della vicenda dei Camalli del porto di Genova,-quando concretamente si pone il problema di come superare la forma medioevale della Compagnia-che nei tanti processi di pubblicizzazione della proprietà, o anche nella più mitigata formula della proprietà cooperativa.
La lotta contro l’oppressione del lavoro può prescindere dal mettere in discussione i rapporti di proprietà. Anzi.Alla azione concreta contro l’oppressione del lavoro può essere chiamata-in una logica di codeterminazione -la stessa borghesia.Esempio emblematico il rapporto con la Fiat di Annibaldi e Callieri.
La fondazione dell’Istituto superiore di formazione avrebbe dovuto incarnare tale visione teorico- politica. L’Istituto superiore di formazione-oggi chiuso- avrebbe dovuto rappresentare nell’idea di Trentin- il luogo privilegiato in cui progettare e in qualche misura codeterminare e diffondere le esperienze più significative di superamento della oppressione del lavoro.
Viene quindi da chiedere a proposito del revisionismo di Trentin: perché la lotta allo sfruttamento del lavoro e lotta alla oppressione del lavoro devono essere viste in questa contraddizione incomponibile ?Marx vedeva l’alienazione come parte del discorso dello sfruttamento. Meglio ancora, perché dovrebbe sorgere tra proprietà pubblica e liberta ‘ del lavoro una incomunicabilità cosi insormontabile? Dovrebbe, se mai, essere l’inverso, come dimostra anche tanta parte della storia della contrattazione e sperimentazione nelle aziende a Partecipazione Statale. Basti pensare alla vicenda della job evaluation.
A partire dalla esperienza dei Consigli di gestione dell’immediato dopoguerra. Le stessa adozione del taylorismo nelle esperienze del socialismo reale, accanto indubitabilmente a arretratezze culturali, era condizionata anche da arretratezze tecniche e sociali. Quindi storiche più che teoriche e quindi strategicamente componibili.
A partire soprattutto, per uno straordinario lettore, come era Bruno Trentin, dall’uscita negli anni settanta dei Taccuini (Grundrisse) – finora assolutamente inediti, e soprattutto dal Frammento sulle Macchine, che il genio assoluto di Marx scrisse in una fredda nottata del 1858. “la potenza produttiva … dipende sempre più dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia e dalla applicazione di questa scienza alla produzione. In una economia nella quale le macchine fanno la maggior parte del lavoro, la natura del sapere racchiuso nelle macchine, dice Marx, deve essere sociale.”
Da qui la grande domanda che deve guidare sempre il cammino della Sinistra sociale e della Sinistra politica: chi controlla la potenza del sapere? Dal chi -come sempre-deriva anche il come. Le tecnologie informatiche, diventano le tecnologie centrali della quinta onda lunga di Kondratiev.Per dirla con Schumpeter ed i suoi epigoni C.Freeman ed oggi M.Mazzucato. In un grande libro-la Società post capitalista- Peter Drucker avverte che i vecchi fattori della produzione-terra, lavoro, capitale-stanno diventando sempre più secondari rispetto al nuovo fattore: l’informazione.
Il grande balzo tecnologico degli inizi del ventunesimo secolo non consiste tanto in nuovi oggetti, ma nel rendere intelligenti quelli vecchi. La conoscenza contenuta nei prodotti sta diventando più preziosa degli elementi fisici usati per produrli. Ma l’informazione ha una caratteristica unica, estranea agli altri fattori :è abbondante, non scarsa, ed è a costi decrescenti, fino ad essere riprodotta a costo zero.
La tecnologia a basso costo e le forme di produzione lineari spingono verso una organizzazione del lavoro collaborativa e cooperativa. La socializzazione del diritto di proprietà, del “diritto terribile “,direbbe S.Rodotà, incomincia con la costituzione giacobina del 1793 come ricorda fra l’altro, lo stesso B. Trentin; P. Mason, in una recente opera profonda e suggestiva, sostiene che uno degli effetti fondamentali della rivoluzione informatica sta proprio nella messa in discussione radicale del diritto di proprietà (Rete, Wikipedia, Spotify ecc.) proprio a partire dal passaggio dalla scarsità alla abbondanza della principale materia prima della attuale società, cioè della informazione.
Sostiene Mason, collaboratore del Leader laburista Corbyn, almeno a detta di alcuni giornali, che le tecnologie informatiche, invece di creare una forma di capitalismo nuova e stabile, stanno dissolvendo il capitalismo: corrodono i meccanismi di mercato, erodono il principio di proprietà, distruggono la vecchia relazione tra salario- lavoro-profitto. L’informatica cambia il campo del confronto-conflitto. Un esempio concreto: Spotify. Per tutto il Novecento, il supporto fisico del disco e del nastro magnetico è stato il veicolo del sonoro, di cui si poteva-doveva avere la proprietà.
Spotify ha reso inutile o non conveniente possedere musica su un supporto fisico. Basta collegarsi a Internet, pagare un affitto mensile, ed avere accesso sconfinato a tutta la produzione musicale. Il bene di consumo musica sparisce come bene di consumo di cui si deve entrare obbligatoriamente in proprietà. Ma che ne è della proprietà capitalistica del sistema di produzione di musica ?Case discografiche di produzione come Sony ecc.? La proprietà dei mezzi di produzione si dissolve e al suo posto si distilla una forma nuova di proprietà che è puro controllo dell’informazione musica e dei processi della sua creativa produzione.
I matematici che elaborano gli algoritmi di Spotify non hanno bisogno di possedere i server che poi controlleranno: decidono però nella realtà puri rapporti sociali e culturali. I loro algoritmi sono in grado di indagare le preferenze individuali e quindi la musica che piacerà in futuro. Sulla base di ciò indirizzano il consumatore e selezionano i produttori di musica: gli artisti. Nella sostanza la proprietà dei mezzi di produzione si distilla in puro potere di organizzare rapporti sociali senza neanche più la mediazione della proprietà del capitale costante.
Google, Facebook,ecc, non sono già oggi giganteschi sistemi di costruzione sociale,-Piattaforme- controllati da gruppi ristrettissimi, in possesso del solo capitale variabile(il lavoro, sia pure di altissimo livello) che producono algoritmi la cui conseguenza si sintetizza in produzione di forme sociali di esistenza? Il controllo non può essere affidato al protagonismo del diritto individuale per la dimensione del problema e per la ovvia asimmetria dei rapporti di forza tra la persona e la multinazionale monopolista. Non può esistere contrattazione aziendale dell’algoritmo.
La questione sta al livello del potere politico e sociale complessivi :la natura pubblica o privata della proprietà. L’esempio di Spotify si può declinare per tante realtà, a partire dall’auto.Bene universale per eccellenza. Sembra che, senza tagliare le teste si stia realizzando attraverso la forza delle cose, direbbe Saint-just, quello che auspicavano i sanculotti delle sezioni parigine dell’anno secondo. La differenza tra i vecchi utopisti (Fourier, Owen ecc.) e noi, sta nel fatto che noi possediamo le tecnologie alla altezza del compito.
Lotta allo sfruttamento e lotta alla oppressione del lavoro sono quindi destinate a marciare allo stesso passo. La rivoluzione informatica, nella sua essenza, significa potenza di calcolo. Proprio in virtù della rivoluzione informatica e della crescita esponenziale della potenza di calcolo prodotta dal combinato scienza/tecnologia, lotta allo sfruttamento e lotta alla oppressione del lavoro, sono destinate ad incrociare il problema della proprietà e del controllo democratico dei mezzi di produzione.
Il futuro parla di questo e ciò diventa strategico, specie per un sindacato confederale che vuole stare al livello delle implicazioni che già attualmente propone la rivoluzione informatica. Resta purtroppo sul campo degli anni novanta un dato molto concreto: negli anni novanta, nel nostro Paese, -unico paese in Europa-registriamo il più grande processo di privatizzazione della nostra storia. Appena al disotto, anche in termini di ruberie e saccheggi, di quello che è avvenuto a Mosca-altro che rivoluzioni libertarie, come le pensa purtroppo anche Trentin- dove bande di avventurieri senza scrupoli si sono intestati lo stato sovietico.
Negli anni novanta, la borghesia italiana realizza a pieno il suo primo grande sogno proibito, perseguito da sempre: la cancellazione della economia mista. Senza, in fondo, colpo ferire. Nella sostanziale Indifferenza della Cgil. Di più: con il sostegno della Fiom di C.Sabattini al comitato promotore del referendum per la abolizione delle Partecipazioni Statali. Non solo :il capitalismo italiano riesce ad azzerare anche gli elementi di alterità insiti nella esperienza del mondo della cooperazione :le imprese cooperative sono sempre più omologhe alle imprese private; simili al punto che, -ministro G. Poletti, ex presidente di Legacoop-la legge quadro di riforma del Terzo Settore,-questa è la vera verità della legge,- apre paradossalmente alla impresa capitalistica privata il territorio del sociale, in sostituzione della stessa impresa di cooperazione sociale.
Il secondo sogno proibito si chiama scala mobile. A pagina 414 Trentin parla del 31 di luglio, giorno dell’accordo sulla fine della scala mobile ricorrendo alla analogia con la pace che a Brest-Litovsk, Trotskj firmò con l’impero tedesco, salvando cosi la prospettiva della rivoluzione bolscevica. Cedere spazio per acquistare tempo, diceva Lenin. Qui valeva invece il principio inverso :conservare spazio, con le unghia e con i denti, il proprio spazio e di cui la scala mobile era un asse portante, per poter affrontare-da una posizione di forza- il tempo in progresso della rivoluzione informatica e delle sue ripercussioni, facilmente prevedibili sulla coesione interna del mondo del lavoro.
Secondo il principio strategico che -più il lavoro si differenzia, al variare delle forme di impresa,- più sono necessari forme ed istituti generali in grado di contenere e armonizzare-di ricomprendere- tale diversificazione/precarizzazione. La scala mobile andava difesa con intransigenza giacobina proprio in funzione del futuro, e non vissuta come un residuato delle conquiste del passato. L’esempio di Brest quindi è totalmente fuorviante e consolatorio :l’abolizione della scala mobile pregiudica proprio il tempo futuro della confederalità del sindacato.
Affidare al solo strumento contrattuale una funzione di controffensiva, mentre era già chiara la tendenza, -innescata dalla globalizzazione dei mercati e dalla simmetrica rinazionalizzazione degli interessi- non solo alla riduzione strutturale dello spazio contrattuale ma anche alla crescente corporativizzazione dei suoi contenuti -contrattazione sempre più dettata da una logica di sopravvivenza-significa un errore di analisi strategica stupefacente.
Stupefacente soprattutto per un sindacato come la Cgil che si professava sindacato politico, cioè di un sindacato che aveva sempre contrastato la concezione infantile che se non si contratta non si esiste. La vicenda della scala mobile, al di là delle modalità con cui è stata gestita, assume il carattere di uno spartiacque nella concezione e nella vita di un sindacato come la Cgil.
La abolizione della scala mobile proprio per questo chiama in causa un discorso di carattere più propriamente strategico, se la strategia va intesa, come deve essere intesa, come una scelta che genera implicazioni nel tempo e nei rapporti di forza fra le classi. La scala mobile era in primo luogo un dispositivo che nel tempo era diventato strategico, affinato in tutto lo scontro sociale e politico del dopoguerra. L’avvento della nuova era – nell’agosto del 1971- della moneta fiduciaria, cioè di una moneta sganciata da ogni ancoraggio e garantita da riserve auree ma solo dalla reputazione di chi la emette-da quel momento il sistema bancario globale comincia di fatto a creare moneta dal nulla-innalza il valore della scala mobile ancora di più, come lo scudo di difesa e contenimento versus le politiche inflattive.
Lo sviluppo della rivoluzione informatica rendeva possibile l’affermazione di nuovi modelli di impresa (Benetton ecc.) e indeboliva il fronte del lavoro e quindi il suo potere di contrattazione: la scala mobile si configurava come uno scudo versus la caduta dei salari. Nel momento in cui cresce esponenzialmene la precarizzazione del lavoro, l’istituto della scala mobile, funzionava ad un tempo da rete di protezione dell’area del lavoro più debole e da rete di contenimento della sua proliferazione. La definizione della composizione del paniere, cioè dei beni di prima necessità da proteggere, definiva un legame con la parte più povera della popolazione.
Con il collegamento infine con la dinamica delle pensioni, la scala mobile funzionava come una aurea catena, come la chiamava Sergio Garavini, che teneva insieme un blocco sociale formidabile: nessun assetto contrattuale avrebbe potuto sostituire, specie nella prospettiva prevedibile, tale catena. Per di più la scala mobile non era un dispositivo strategico rigido, una specie di linea Maginot. Grado di copertura e composizione del paniere potevano permettere molte combinazioni. In particolare il discorso sulla composizione del Paniere avrebbe aperto alla costruzione di una politica consumerista in grado di impiantare nel nostro paese il discorso sempre più strategico-come dimostra l’oggi- dei modelli di consumo.
La scala mobile quindi da semplice strumento di recupero contro l’aumento dei prezzi, nel tempo, era diventato un vero e proprio dispositivo strategico. Un limes flessibile. La cancellazione della scala mobile ha un significato quindi che va ben oltre la semplice difesa del potere di acquisto; ha spalancato la via del progressivo isolamento sociale della parte del lavoro più organizzata e sindacalizzata; la via verso un Lavoro sempre più debole, frastagliato ed isolato poteva ora procedere senza incontrare sulla sua via un ostacolo di contenimento come poteva invece essere messo in campo attraverso il combinato disposto scala mobile/contrattazione.
La sola azione contrattuale , era destinata ad essere sempre più presa nell’ingranaggio della competizione sempre più aspra innescata dalla mondializzazione dei mercati/rinazionalizzazione degli interessi e quindi indebolita dai mutati rapporti di forza e segnata dal ricorso a logiche di autodifesa corporativa. Basta guardare oggi al riemergere nella contrattazione delle tematiche del cosiddetto Welfare aziendale, tematiche intrise di elementi aziendalistici e corporativi o al ritorno delle mutue aziendali o di categoria come nell’ultimo contratto dei meccanici.
L’esito finale di tale contrattazione, non può che essere la pura e semplice aziendalizzazione del Sindacato :la riduzione progressiva del carattere confederale del sindacato. Non è possibile quindi nessuna comparazione con Brest-Litovsk. Il bilancio politico degli anni novanta è purtroppo impietoso : certamente tutto non può essere messo sulle spalle di Bruno Trentin; ma la cancellazione della economia mista, la soppressione della scala mobile, in termini strategici configurano per il capitalismo italiano una vittoria campale, con conseguenze di lungo periodo: la prima conseguenza riguarda la questione delle politiche industriali e di sviluppo, la seconda la questione delle politiche distributive.
Le imprese pubbliche sono sempre state condizionanti delle politiche industriali così come la scala mobile delle politiche di distribuzione del reddito. Le due conseguenza hanno un unico effetto: la sottrazione di due armi formidabili alla strategia della unificazione delle forze del lavoro, ragion d’essere della confederalità del sindacato. Azione contrattuale, azione sociale, azione politica sono i tre tipi di azione in cui è possibile suddividere e distinguere l’attività quotidiana di una grande organizzazione sindacale.
Il Sindacato di programma rappresenta il tema che quasi ossessivamente segna le giornate dei Diari, il filo rosso che lega le grandi giornate(conferenze, direttivi, incontri ecc.) e l’attività ‘ quotidiana e routinaria di governo della organizzazione. Il Programma secondo Trentin doveva assolvere al problema di fondo della Cgil come organizzazione: la sua identità. La Conferenza di Chianciano rappresenta l’atto fondativo di tale progetto; il panorama sindacale può oggi essere rappresentato così :la Cgil come sindacato dei diritti ;la Cisl come sindacato della solidarietà; la Uil come sindacato dei cittadini.
Ma l’identità attraverso il programma assomiglia ogni giorno di più alle classiche fatiche di Sisifo: il programma non svolge nessuna funzione identificatoria, aggregante, di orientamento ed insieme di criterio di valutazione delle azioni concrete, di fronte al divenire mutevole della situazione sociale e politica. Nel migliore dei casi il Programma si dissolve in una affabulazione esortativa: la Ragion Pura del Programma non alimenta nessuna Ragione Pratica della azione quotidiana.
Da qui il cruccio continuo di Trentin e la sua distanza psicologica crescente con l’organizzazione che è pur chiamato a dirigere: il cavaliere non riesce ad entrare nella psicologia del cavallo. Ma ciò a ben vedere, è coerente con la teoria. Direbbe il sommo E. Canetti in Massa e Potere, che ognuno che ha a che fare con le masse dovrebbe tenere sul comodino,: il Programma attiene al fare, mentre l’identità appartiene all’Essere. Ma l’Essere, per definizione, è costituito non solo dal fare, da una fisica, ma anche da una meta-fisica: storia, memoria, mito.
L’esempio più vicino è dato dalla Cisl: la Cisl ha la sua fisica nel contrattualismo, la sua metafisica nel popolarismo e solidarismo cattolico. L’Identità attraverso il Programma si rivela quindi ogni giorno tanto ambizioso quanto illusorio. Una grande organizzazione di massa, sempre seguendo Canetti- è una combinazione di quattro elementi costitutivi: la dimensione finalistica, lo scopo; la dimensione culturale, cioè il modo di pensarsi e di pensare; la dimensione strategica e tattica, la sua prassi concreta; la dimensione propriamente organizzativa, la sua struttura. Ogni grande organizzazione, anche senza ricorrere a particolari filosofie della storia, ha sempre un suo pensiero mitico in cui si confondono l’identità ed il fine.
Il fine della Cgil per me, sta nella eguaglianza, l’eguaglianza dei moderni, l’égalité.
“Si è liberi in quanto eguali… la legge libera, la libertà opprime, perché è la libertà del più forte.” dicevano Rousseau ed Hegel: realizzare quindi sul terreno sociale il principio della eguaglianza politica; all’inverso l’arbitrio di alcuni si somma con la sudditanza dei molti. La democrazia sociale come inveramento della democrazia politica. Eguaglianza quindi come valore e come metodo dell’azione sociale, che mette all’opera anche la differenza e le pari opportunità per una più compiuta realizzazione di se’: trattare in maniera eguale uomini che si trovano in condizioni diseguali, diceva Marx, realizza il massimo dell’iniquità.
I diritti sono quindi una cultura ed un fine. Ma un conto è una nuova cultura dei diritti, che riconosce e sancisce i nuovi spazi dell’individuo e impiega il nuovo polimorfismo dell’individuo come moltiplicatore di potenza sul terreno della acquisizione più generale dei diritti sociali; un altro conto è una cultura che rinchiude e circoscrive i nuovi spazi dell’individuo in un ambito di puri diritti individuali.
Tale accezione della cittadinanza atomizza, individualizza problemi e risposte che sono collettivi, cancella la questione degli attori sociali del conflitto, oscura il tema della Riforma Sociale, spezza il legame tra diritti e Poteri, diventa sostitutiva della azione collettiva. L’identità attraverso il Programma si è dimostrata una scorciatoia, una fatica molto effimera, e senza approdo; i diritti, senza uno schieramento politico in grado di tradurli in norme, si rivelano alla fine una retorica che fatalmente scade in esercitazione letteraria.
L’identità della Cgil era stata cercata su un terreno su cui non poteva essere trovata. La Cgil, organizzazione per sua natura pluralista non può che derivare la sua identità dal patrimonio storico e politico della Sinistra, pena il suo ridursi a un semplice mega-apparato burocratico di tutela. Una specie di gigantesco Difensore Civico nazionale in cui il pensiero giuridico sostituisce il pensiero strategico.
Questa era ed è la mia convinzione. Ma “l’Essere a Sinistra” impone di fare i conti con il destino concreto della Sinistra, e quindi con il mutare continuo delle forme e della fisionomia della sinistra politica. E dei suoi conflitti. Rifuggire da tale compito, significa alla lunga, rendere irrilevante il peso della stessa lotta sociale nel piatto della bilancia dei rapporti di forza complessivi, peso che non può che essere la risultante dei rapporti di forza sociali e politici insieme.
Il sociale senza il politico si esaurisce nella testimonianza, il politico senza il sociale nel puro gioco machiavellico del potere. Spesso personale. Sempre più spesso. L’autonomia del politico e l’autonomia del sociale configurano un gioco a somma zero. Sinistra politica e Sindacato confederale sono costruzioni sempre in itinere e mai completate, come la Sagrada Familia di Gaudì; sono gemelli siamesi, accumunati in un unico destino.
I diari di Trentin hanno quindi per me un grande valore. Dopo ormai venti anni dalla Conferenza di Chianciano, possono contribuire a rialimentare una riflessione su un lungo tratto di storia, e fare il punto- nave, come facevano i vecchi marinai: da dove si è partiti e dove si è approdati, per impedirsi collettivamente di scambiare le Indie verso cui si era partiti nelle Americhe in cui si è invece approdati.. Nell’unico modo vero di rendere gli onori dovuti a un grande dirigente, sine ira ac studio.
Trentin in uno degli ultimi incontri presso la redazione de “Gli argomenti umani” cui collaboravamo, mi confessava un suo antico cruccio: Parigi non aveva mai trovato il modo di dedicare una via all’Incorruttibile. Mi piace immaginare per Bruno Trentin, venerato maestro, la realizzazione dell’ultimo desiderio che Jean Jaures, grande capo dei socialisti francesi, confessava di avere: entrare in silenzio nel Club dei Giacobini e andare a sedere accanto a Massimiliano Robespierre.

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