Che ne sai della notte della Repubblica?

8 Agosto 2017 /

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di Riccardo Lenzi
La ricostruzione del contesto in cui avvenne lo sbarco degli Alleati in Sicilia il 10 luglio 1943 nell’ultimo film di Pif, “In guerra per amore”, ha suscitato una discussione tra il regista e lo storico siciliano Rosario Mangiameli. Quest’ultimo sostiene infatti che non c’è stato alcun patto tra Cosa nostra e i servizi segreti statunitensi dell’epoca (Office of Strategic Services). Tesi più volte ribadita anche dai suoi colleghi Salvatore Lupo e Francesco Renda.
Eppure – oltre alla documentazione inglese e americana portata alla luce nel 2004 da Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino – basterebbe leggersi un documento parlamentare datato 1976 e anch’esso consultabile on line: la Relazione di maggioranza della Commissione antimafia presieduta dal democristiano Luigi Carraro. A pagina 115 leggiamo che

«l’episodio certo più importante ai fini che qui interessano è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco da Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana. Di questo episodio si sono frequentemente occupate le cronache e la pubblicistica, con ricostruzioni più o meno fantasiose, ma la verità sostanziale dei fatti non sembra contestabile (…). Il gangster americano, una volta accettata l’idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capomafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell’esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per preparare all’occupazione imminente le popolazioni locali. La mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti».


La biografia della Repubblica italiana
La discussione innescata dal film di Pif sarebbe un’occasione da cogliere per avviare una riflessione seria sulla biografia della Repubblica italiana. Certamente “nata dalla Resistenza” al nazismo e al fascismo; ma nata anche sotto il segno di un’altra “resistenza”, di senso opposto, durata molto più a lungo e nella quale furono reclutati molti tra i “vinti” (che hanno così potuto continuare a spargere il sangue dei “vincitori” anche dopo la guerra): una resistenza antisocialista e, soprattutto, anticomunista.
Tra quei vinti riciclati non c’erano solo nazisti e fascisti salvati dal patibolo; come Junio Valerio Borghese che infatti, un anno dopo Piazza Fontana, troverà tempo e risorse per organizzare un golpe, prima di rifugiarsi nella Spagna di Franco. C’erano anche dei mafiosi. Queste, in gergo finanziario, si chiamano “holding”; in quello politico si chiamano “trattative” (plurale d’obbligo considerando che c’è un processo, in corso a Palermo, dedicato alla più recente tra esse). Nessun mistero. Nel frattempo, proprio a partire dai primi anni Settanta, si erano sviluppati terrorismi di opposta matrice ideologica, entrambi risultati funzionali agli equilibri politici decisi al di là dell’Atlantico. Da un lato personaggi come Toni Negri e Renato Curcio predicavano una imminente rivoluzione (che nel contesto della guerra fredda non poteva avverarsi), convincendo non pochi giovani di sinistra ad organizzarsi in bande armate ed uccidere quelli che venivano dichiarati “nemici del popolo”.
Dall’altro giovani neofascisti, sognando un golpe di destra come in Grecia o in Cile, sparavano e mettevano bombe nei luoghi pubblici in nome della “disintegrazione del sistema” teorizzata dal professore ordinovista Franco Freda detto Giorgio (impunito corresponsabile [*] della strage del 12 dicembre 1969, è riapparso qualche anno fa nei panni di opinionista del quotidiano Libero); il tutto mentre i servizi segreti civili e militari, diciamo così, non si limitavano a tenere questi ragazzacci sotto stretta sorveglianza.
Il web, anche in questo caso, è un’arma a doppio taglio. Se da un lato – grazie soprattutto all’impegno della Rete nazionale degli archivi e delle associazioni delle vittime – rende accessibile una gran quantità di documenti e informazioni verificate e verificabili, allo stesso tempo amplifica le falsità e, soprattutto, un «chiacchiericcio che tutto confonde», come lo definì Benedetta Tobagi in un articolo scritto per Repubblica nel 2010.
Come distinguere il vero dal falso
Restano alcune domande sospese nel vuoto: con quale criterio possiamo orientarci, distinguendo il vero dal falso, i fatti dalle ipotesi, la storia dalle congetture? Che fare davanti a due storici o due esperti che si contraddicono? Oggi, forse, non ha più molto senso parlare di “controinformazione”. E nemmeno di “controstoria”. Proprio come accade nel campo della scienza, varrebbe la pena ragionare invece di responsabilità di una comunità di esperti. Come in tutti i contesti empirici, l’unico modo di contrastare la disinformazione storica – strumento che, da sempre, condiziona l’immaginario e le scelte delle persone – è la condivisione delle informazioni, la costante realizzazione di verifiche incrociate, la revisione come metodo e non come ideologia revisionista.
Per questo la Rete degli archivi è una cosa intelligente, che dovrebbe starci a cuore. Nonostante i progressi tecnologici, la logica della disinformazione è sempre la stessa: selezionare e dosare. Vi siete mai chiesti come mai ci sono sentenze considerate del tutto discutibili (e infatti da tutti discusse sui giornali e in televisione), mentre altre, ben più clamorose, sono considerate verità intangibili? Provate a pensarci: ogni anno siamo abituati a leggere di dichiarazioni e libri che mettono in discussione la verità giudiziaria sulla strage del 2 agosto 1980. Mentre la verità ufficiale sul caso Moro è molto più “rispettata” sebbene faccia acqua da tutte le parti, come testimonia l’esistenza di un’ennesima commissione parlamentare.
Nel primo caso i sostenitori dell’innocenza di Mambro e Fioravanti non vengono accusati di revisionismo o di dietrologia. Nel secondo caso succede l’opposto: chi mette in discussione la verità confezionata a suo tempo da Valerio Morucci, Mario Moretti e Remigio Cavedon (ex direttore democristiano del Popolo) viene liquidato come complottista. Perché? Perché molti studenti dei licei bolognesi pensano che la bomba alla stazione l’abbiano messa le Brigate Rosse? Come mai, invece, la maggioranza degli italiani sa che Aldo Moro è stato rapito ed ucciso dalle Br, ma non ha ancora chiaro che le bombe in Italia le hanno messe i terroristi di estrema destra e i loro complici, non solo italiani?
Prima della recente sentenza della Cassazione, che li ha condannati in via definitiva per la strage di Piazza della Loggia, quanti conoscevano i nomi di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte? Agli atti di quel processo c’è la perizia del consulente Giuseppe De Lutiis, tra i massimi conoscitori della storia dei servizi segreti, scomparso lo scorso 13 marzo, che tutti dovremmo ringraziare per il prezioso lavoro svolto nell’arco di una vita di studi: «il documento che più di ogni altro evidenzia aspetti illegali dell’intervento che governo e esercito statunitense hanno pianificato in caso di vittoria delle sinistre in Italia è il cosiddetto Supplemento B2 al Field Manual 30-31 a firma del generale William Westmoreland, datata 18 marzo 1970». In quel documento, sequestrato alla figlia di Licio Gelli nel lontano 1981, si parla esplicitamente dell’uso della violenza come strumento per condizionare i governi e l’opinione pubblica. La messa in atto, anche in Italia, di una strategia di “guerra non ortodossa” non è pertanto liquidabile come la tesi complottista di questo o quel dietrologo: si tratta di un fatto accaduto, accertato, documentato. Ovvero verificabile. Un fatto su cui, a partire dagli anni 80, si è costruita l’egemonia neoliberista che ha plasmato il presente.
[*] Il 3 maggio 2005 la seconda sezione penale della Cassazione ha certificato la colpevolezza di Franco Freda e Giovanni Ventura per la strage di Piazza Fontana, dichiarandoli non processabili in quanto assolti precedentemente (con formula definitiva) per lo stesso reato.
Foto di Frank Capa. Questo articolo è stato pubblicato dall’associazione Piantiamo la memoria riprendendolo dal numero 52/2017 della rivista Il Mosaico

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