Un viaggio nella memoria per riscoprire l'eredità di Rugova

17 Giugno 2017 /

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di Luca Mozzachiodi
Da un po’ di tempo le guerre che sono seguite alla dissoluzione della Jugoslavia sono un mio cruccio, a quella che sconvolse il Kosovo è poi legato un nettissimo ricordo che si può dire nasconda nella sua ingenuità la terrificante domanda su quello che un vecchio autore chiamava il macello della storia. «Papà ma cosa ci fanno con tutti quegli aerei?», chiedevo salendo in macchina e pensando alle immagini dell’intervento Nato.
Ci fanno la politica di potenza, avrebbe potuto rispondere, ci uccidono migliaia di civili serbi, spengono con il bombardamento luce e tv a Belgrado, disseminano per tutte le campagne, anche del Kosovo, uranio impoverito; ma avrebbe potuto anche rispondere costringono a porre fine alla violenza sui civili kosovari, consentono al parlamento di riunirsi, restituiscono l’autodeterminazione ai cittadini di un altro paese, fanno tornare gli albanesi nelle scuole e negli ospedali.
La vera tragedia è che tutte queste risposte sono insieme vere e false e che solo una ragione equilibrata e militante ci può permettere di trasformare l’apparente insensatezza di certe contraddizioni nella logica politica ferrea che di tali contraddizioni è la causa. Una ragione che Luca De Poli dimostra pienamente di avere nell’organizzare il suo libro sul presidente Rugova, Ibrhaim Rugova viaggio nella memoria tra il Kosovo e l’Italia, scegliendo una forma inedita e particolare.

Il libro si struttura infatti come una serie interviste a studiosi, collaboratori di Rugova e volontari civili in missioni umanitarie in Kosovo, cui si aggiunge la disamina di un’intervista rilasciata in francese dal leader kosovaro. Tra le voci di pregio meritano di essere ricordate quelle a Don Gjergji Lush e agli storici Robert Elsie e Jože Pirjevec, l’argomento però è essenzialmente uno: Ibrhaim Rugova, la sua figura, la sua eredità politica, il suo ruolo nelle rivendicazioni civili prima e negli eventi militari poi.
Ne esce, come forse deve essere, un ritratto tanto multiforme quanto sfuggente: per alcuni si tratta del Gandhi dei Balcani, fautore attivo di una politica di non violenza, per altri di un politico brillante e un po’ cinico che aveva capito, agli albori del mondo globalizzato e ipermediatizzato, in anticipo su tanti altri come giravano le carte della nuova politica e come sfruttare il consenso estero per provocare l’intervento militare necessario agli interessi dei suoi. Il pragmatico organizzatore di un governo parallelo che amministrava e garantiva servizi agli albanesi in piena politica di separazione da parte dei serbi da un lato e la figura evanescente e debole di fronte ai rampanti capi guerriglieri dell’Uck dall’altro.
Resta molto di quella guerra, anzitutto le classi dirigenti, a cominciare dall’attuale presidente del Kosovo Thaçi, ex leader Uck che ora ha sciolto il parlamento e il cui partito si appresta a rompere la stagione di precarie coalizioni, c’è vincitore delle recentissime elezioni Ramush Haradinaj ma volti e nomi sono preoccupantemente gli stessi, fin nelle maglie più larghe della burocrazia, in tutti i paesi dei Balcani. Così come, nella percezione diffusa, stessi sembrano essere la povertà, non tutti sono stati toccati dal sospirato benessere occidentale, e gli odi, anche se si deve avere più di un sospetto che questo accada per convenienza politica e necessità di ricompattare gli schieramenti. Del resto mi è stato detto che per una giusta somma in giusti uffici i serbi diventano albanesi e gli albanesi serbi se occorre; non ci sono etnie per l’amministrazione né per il capitale che ancora specula sulle ricostruzioni e sui giacimenti minerari della regione.
Ciò che resta sul piano politico è l’attestazione del fatto che, in uno scenario globale che allora era nuovo ma oggi ci appare già consolidato e tipico e anzi mostra forse i primi segnali di evoluzione nella rinascita della politica radicale nelle sue più svariate forme, la forza fa da padrone nelle relazioni, chi dispone della forza dispone dell’iniziativa su diversa scala e ci sono conflitti tra piccole politiche di potenza regionale, come la Serbia di allora, e grandi politiche di potenza e di controllo mondiale, come allora la Nato cominciava a mostrare.
Quella che dunque, come si evince dagli appassionati racconti dei testimoni in queste pagine, dobbiamo considerare la migliore eredità politica e simbolica dell’esperienza di Ibrhaim Rugova sta a mio parere nella sua capacità di organizzare e controllare le reti territoriali di una comunità coesa in un governo parallelo, nel recuperare a una coscienza politica un popolo attraverso un’esperienza di lotta politica nonviolenta senza la seducente promessa di facili avventure; nel sapere che la politica è un lavoro lungo, difficile e sotterraneo (in altri tempi avremmo potuto usare l’immagine marxiana della talpa che scava al di sotto del capitale).
Tutto questo c’è da augurarsi sia riscoperto quali che siano l’esecutivo e il parlamento nuovi di questo martoriato fazzoletto d’Europa, anche se, e De Poli da bravo ricercatore che non si fa prendere dal mito del proprio personaggio ce lo ricorda spesso nel libro, Rugova è politicamente uno sconfitto rispetto alla soluzione bellica e gli interlocutori degli accordi di pace e poi delle potenze che mantengono il protettorato Unmik e Nato sono stati altri; non ha saputo capire la rilevanza della forza e della distruzione come fattori di mobilitazione e di accelerazione dei mutamenti, altri dicono che sia stato un non-violento pragmatico, spinto dalla debolezza più che dalla convinzione. Per quel poco che posso capirne mi sembra che nel suo caso, come in tanti altri, la capacità di leggere le contraddizioni della realtà passi, per chi viene dopo, più nel ragionare sui fecondi errori dei vinti che nella ripetizione dell’evidente forza dei vincitori.
C’è dunque da essere felici di questo lavoro ben fatto e importante in cui, pur celata in parte per modestia in parte in ossequio al ruolo di storico e cronista, si legge evidentemente anche l’ideologia dell’autore. In questo senso ci pare un inciampo finale, un omaggio al malcostume del tempo, una ingenuità dovuta alla ripetizione ossessiva del ritornello sulla morte delle ideologie, il paragrafo conclusivo che garantisce la veridicità di quanto riportato perché «l’opera non si ispira ad alcuna ideologia», non è vero nei fatti, né la coscienza della propria tradizione è un attentato alla verità.
Avremmo davvero preferito che la lucidità e il coraggio dimostrati nella raccolta e nell’esposizione dei materiali gli avessero permesso infine anche di tagliare i ponti con quella vulgata e di sostenere apertamente le sue preferenze: molto meglio dire “l’esperienza di Rugova mi sembra un grande modello per questo”, finanche “lui mi pare un grande uomo per questa ragione”. Magari non saremmo stati d’accordo su tutto, come il suo atlantismo o la sua adesione un po’ troppo priva di distinzione al modello liberale e democratico occidentale, magari non saremmo stati d’accordo, ma avremmo riconosciuto la genuinità veramente politica del pensiero.
Perché un’ideologia nel mettere insieme queste pagine c’è, c’è una ragione se si scrive un libro su Rugova e non su Demaçi, se si scrive sul Kosovo e non sul campionato di pallamano. La sua ragione si intuisce anche dalle scelte delle epigrafi e dalla, ricchissima e documentata, bibliografia: tanto Bobbio, che resta per De Poli un modello di pensatore sulla politica e forse anche da questo viene un certo sapore di sinistra liberal che si vuole moderna e equilibrata (leggi moderata), poi Hannah Arendt e ancora un pensiero sociale interclassista e molta attenzione alle pratiche sociali della chiesa Cattolica.
Soprattutto però, più ancora che libri e autori, in queste parole si vede tutto il tentativo di pensiero della nuova militanza, dei giovani formati dagli anni Novanta e per cui, in un certo senso, le guerre nei Balcani sono state la prima prova di intelligenza storica e operatività politica: è un pensiero che mette al primo posto i diritti civili e crede nella democrazia, così come ci viene consegnata, come un campo di battaglia per quelle istanze, si lascia a volte dietro le grandi sintesi e la totalità per scendere invece nelle profondità della psicologia individuale, fa di pacifismo e non-violenza una necessaria petizione di principio, ma più di ogni altra cosa dà valore all’esperienza e crede nella società civile come momento di risoluzione dei contrasti (ecco dunque il fiorire di associazioni e il fenomeno del volontariato).
Su molto c’è da dissentire ma questa è una parte della politica che viene, che allora si formava e che non ci abbandonerà tanto presto; bisogna farci i conti anche perché è forse la parte da cui ci si può aspettare di più, animata com’è profondamente dal bisogno di domandarsi e di pensare e memorabili in questo senso sono quelle della volontaria Sara Cossu: «Voglio chiedermi prima di tutto perché siano spesso i luoghi massacrati dal conflitto a partorire il pacifismo. O perché siano gli Stati che sganciano le bombe a partorire movimenti non violenti e personaggi insigniti di riconoscimenti e onorificenze».
Per chiunque si sia posto almeno una volta simili domande lo sforzo documentario di Luca De Poli merita attenzione e interesse, si tratta del resto di un passato tanto recente quanto ancora poco analizzato seriamente da noi. C’è da essere felici che piccole case editrici si diano a questi libri, possiamo ancora sperare di non morire di mondadorismo.
Recensione a Luca De Poli, Ibrahim Rugova viaggio nella memoria tra il Kosovo e l’Italia, Faenza, Homeless Book, 2015, pp. 198

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