Mentre scrivo questo articolo, più volte ripreso e rimaneggiato (ogni volta mi sembra impreciso, inconsistente, poco significativo), mi accorgo che esso si inserisce in un dibattito in corso, in queste settimane, su queste pagine virtuali. Sono felice di vedere che – mi sembra – in diversi ci poniamo, in fin dei conti, una stessa domanda: che fare, circa la guerra e circa la pace?
Ho sempre pensato che agire a livello culturale fosse fondamentale, ma adesso credo che non basti più o che in qualche senso non sia giusto, ora, il modo in cui lo facciamo nella gran parte dei casi. Non è sufficiente, nell’urgenza in cui siamo, scrivere articoli o fare dibattiti: uno dei motivi è che in questo modo parliamo perlopiù solo tra “noi” (per “noi” intenderò qui quelli che cercano di essere in qualche modo attivi entro una visione pacifista del mondo). Ma allora, di nuovo, che fare? Non ho la risposta, ma provo a dire qualcosa muovendo da quello che per me è uno dei nuclei più profondi e insidiosi del problema: sembra non sia più possibile pensare al mondo (e descriverlo) se non come a un aggregato di blocchi e, nella nostra società, come al posto in cui ci sono un Occidente e un resto. Sono due cose non interamente sovrapponibili. Se il primo punto prevede già in sé la scintilla della contrapposizione (il blocco è entità compatta, ben differenziata e chiusa rispetto alle altre), il secondo è permeato spesso, anche, da un’identificazione dell’Occidente con la parte “giusta” del mondo e dalla convinzione che questo sia oggettivo: la relatività storico-culturale e l’autoreferenzialità dei criteri (le idee su cosa sia giusto o sbagliato, su cosa sia il “progresso ecc.) usati per derivare tale superiorità passano spesso completamente inosservate.
La questione non è, qui, stabilire se l’Occidente sia o meno “superiore” o “inferiore” in qualche senso o quale sia la parte più “giusta” su questa terra, ma giungere a un pensiero nel quale questo modo di dividere il mondo non sia più rilevante o sia privo di senso. Questo passo, tra le altre cose, ci consentirebbe di passare dall’abituale “da che parte stai?” al molto più utile “cosa sta succedendo?”: un approccio di studio del problema, non di tifo. Questo cambio di approccio ha molto a che vedere con il “che fare?”. Ora, se vogliamo infiacchire il pensiero e il linguaggio che procedono per contrapposizioni, dobbiamo prima di tutto considerare le nostre stesse abitudini in tal senso. Voglio qui parlare di una di queste: la suddivisione tra pacifisti e bellicisti, che io stessa ho in qualche caso praticato, sentendo un misto di conforto (chiarificare la realtà e posizionarsi sono di quelle cose che danno sollievo) e disagio. Ho interrogato questo disagio e quello che segue è una piccola parte di ciò che ne è venuto fuori.
Non ci piace, ovviamente, essere definiti “putiniani”, “pacifinti” o “anime belle”, ma è pur vero che spesso nei nostri stessi discorsi non manchiamo di definire gli altri come “con l’elmetto”, “bellicisti”, “guerrafondai”: cioè, attribuiamo – spesso con pari disinvoltura – etichette totalizzanti, semplificanti, polarizzanti e a volte sbagliate come quelle contro cui tante volte giustamente ci siamo mossi. Questo non significa non vedere che i media, per esempio, sono pieni di fanatismo e propaganda, e certo è vero che molte persone appaiono infervorate dal pensiero stesso della guerra; non tutte, però, sono mosse dall’eccitazione per le armi o dall’esaltazione per la superiorità occidentale; per alcune può trattarsi di farsi più semplicemente prendere dal senso romantico di cui le guerre sono spesso colorate: “noi combattiamo uniti contro il male”. E se per i primi la vittoria bramata può porsi come mezzo di dominio, per i secondi essa può essere invece la meta cui giungere per le strade di un senso di dovere morale. Altri, poi, appaiono indifferenti di fronte al problema della guerra, ma quello che sembra disinteresse nasconde a volte ragioni diverse: un pensiero abituato a restare limitato a cosa accade qui e a sé (comprensibile, nelle nostre società centrate sull’individuo e il benessere individuale) o magari una percezione del rischio – per esempio di catastrofe atomica – probabilmente mantenuta bassa da una molteplicità di fattori. Ci sono, poi, persone turbate dal pensiero della guerra e che desiderano la pace, ma sono convinte che non vi si possa pervenire se non tramite la guerra o, sapendo che anche mezzi pacifici sono possibili, sentono quell’impotenza dell’agire oggi così pervasiva.
Considerare la pluralità delle tendenze, qui solo rozzamente abbozzate, di opinione e atteggiamento circa la guerra e la pace può consentirci di pensare a come agire meglio a livello “culturale” – qualcosa che non si può fare se non si comprende da cosa dipendano, o a cosa siano legati, quegli atteggiamenti – ma, soprattutto, può aiutarci forse a depotenziare alcune delle nostre stesse categorizzazioni dicotomiche abituali: non si tratta di sostituire ad alcune categorizzazioni altre categorizzazioni, ma di aggiungere varietà e complessità, portando l’attenzione sulla molteplicità delle posizioni possibili, sulla loro varietà interna, sulla loro irriducibilità in opposti. Non si tratta di imporci un tipo di linguaggio, ma di evitare gli errori di pensiero (e di linguaggio) che chiediamo agli altri di evitare.
C’è da dire che il classificare è alla base della percezione e della concettualizzazione della realtà, ma penso che abbiamo bisogno di un antidoto all’esasperazione che notiamo, della tendenza a categorizzare il mondo in grossi gruppi sociali estremizzati. Non so se si possa ipotizzare che la corsa a infilarsi in rigidi posizionamenti antitetici sia una sorta di compensazione per l’incertezza pervasiva, la labilità delle identità e la mancanza di punti di riferimento che contraddistinguono la nostra società (vedi per esempio Bauman, 2000, 2008). Ad ogni modo, in essi facilmente si dissolvono le differenze intra-gruppo e si inaspriscono quelle inter-gruppo. C’è un Noi e c’è un Loro, e il Noi sembra compiersi nelle (e grazie alle) differenze rispetto a Loro.
Gli psicologi Henri Tajfel e Joseph P. Forgas hanno scritto: «l’immagine e il concetto di sé di un individuo si possono pensare fino a un certo punto come dipendenti dalla sua appartenenza a un gruppo, e in particolare dalla differenziazione che esiste fra il suo gruppo e gli altri gruppi» (1997, p. 150). In questo senso, per gli Autori il concetto di categorizzazione (l’ordinamento dell’ambiente in categorie) sociale si lega con quello di identità sociale dell’individuo, connessa con gli aspetti emotivi e valoriali collegati all’appartenenza a un gruppo sociale. Affermano, gli Autori, che «è verosimile pensare che i criteri in base ai quali vengono stabilite le categorie sociali […] siano fondati primariamente su considerazioni di valore» (ivi, p. 149) e che «un sistema di categorie che sia associato a un sistema di valori tende all’auto-conservazione» (ibidem), per esempio mediante selezione e modifica delle informazioni che giungono dall’ambiente in coerenza con le differenziazioni di valore esistenti e per mezzo di processi che aumentano la chiarezza delle varie categorie sociali e la distinzione tra esse.
La centratura su questioni di valore e le “polarizzazioni”, che vediamo bene in chi si profonde nell’esaltazione dell’Occidente o dell’atlantismo (di cui oggi si parla spesso, ahimè, proprio nei termini di un sistema valoriale), in effetti sono in qualche misura presenti anche in “noi”, quando parliamo senza distinzioni. Questo si fa particolarmente evidente nelle tante comunicazioni, che purtroppo vedo, ricche di scherno e disprezzo per i “guerrafondai” o gli inerti: non penso sia una buona strada, perché è percorsa con la stessa disposizione di fondo che permea il problema che vogliamo risolvere.
L’aspetto che voglio porre in luce è (quella che io vedo come) la necessità di avviarci a un modo diverso di pensare, il che significa cambiare noi stessi come prima cosa. Non dovremmo contrapporre i nostri dualismi a quelli altrui: dovremmo smetterla (il più possibile) di pensare (e parlare) in termini di opposti e contrapposizioni. Il mondo, a un’osservazione un po’ attenta, si palesa molto più vario di quanto non sia racchiuso nelle dicotomie che ci guidano spesso senza che ce ne accorgiamo, e ci coglie impreparati forse, abituati come siamo, in quanto umani, a “scoprire” nel mondo le premesse che abbiamo su di esso e le tipologie cui ci riferiamo. Restare nella visione corrente significa rinforzare proprio quelle fondamenta che sostengono la situazione terribile in cui siamo, sempre più dominata da più pericolosi dualismi. Rischiamo di riprodurre, se non avviamo un modo di pensare radicalmente diverso, il proverbio francese per cui più si cambiano, più le cose restano come sono.
Watzlawick, Weakland e Fisch, richiamandosi alla teoria dei tipi logici (Whitehead, Russell, 1910-13) nello studio del cambiamento e della persistenza dei problemi umani, parlavano del cambiamento2: il cambiamento delle regole del sistema, il «cambiamento delle premesse […] che regolano il sistema come un tutto» (1974, p. 38 tr. it.). E precisavano: «un sistema che può passare attraverso a tutti i suoi possibili cambiamenti interni senza provocare un cambiamento del sistema, cioè un cambiamento2, si dice che è preso in un gioco senza fine [si veda Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson Don D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971, pp. 229-33]. Non può generare al suo interno le condizioni del proprio cambiamento; non può produrre le regole per cambiare le proprie regole» (ivi, p. 37). Forse il “che fare?”, non so bene come, passa da qui.
Bibliografia
Bauman Z., Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge, e Blackwell Publishers Ltd, Oxford, 2000 [tr. it. Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2011].
Bauman Z., Does Ethics Have a Chance in a World of Consumers?, Harvard University Press, Cambridge(Mass.), London, 2008 [tr. it. L’etica in un mondo di consumatori,Laterza, Bari-Roma, 2011].
Tajfel H., Forgas J.P., “La categorizzazione sociale: cognizioni, valori e gruppi” (1981), in Ugazio V. (a cura di), La costruzione della conoscenza. L’approccio europeo alla cognizione del sociale, Franco Angeli, Milano, 1997, pp. 139-168. (Il capitolo è tratto da: Tajfel H., Forgas J.P., “Social categorization: cognitions, values and groups” (1981), in Forgas J.P. (ed.), Social cognition, London, Academic Press, 113-140).
Watzlawick P., Weakland J.H., Fisch R., Change. Principles of problem formation and problem solution, W. W. Norton & Co., New York, 1974 [tr. it. Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1974].
Whitehead A.N., Russell B., Principia Mathematica, 3 voll., Cambridge, Cambridge University Press, 1910-13.
Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna il 5 novembre 2024