La doppia morte di Pio La Torre

2 Maggio 2017 /

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di Nino Blando
Pio La Torre apparteneva a una generazione nata sotto il fascismo, alla periferia di una città periferica e povera come Palermo, di un paese altrettanto misero come l’Italia, che alla fine della tragedia del secondo conflitto mondiale si impegnava in una missione a detta di tanti – italiani e non – impossibile: costruire la democrazia di massa. La costruzione della cittadinanza repubblicana è avvenuta tutta attraverso l’azione dei grandi partiti politici di massa, autolegittimatisi in quello che una volta veniva chiamato «l’arco costituzionale», al quale appartenevano tutti coloro che avevano scritto la costituzione. I partiti mettevano in contatto centro e periferia, drenando domande, trovando risposte e selezionando classe dirigente.
Quest’ultima veniva proprio dalle periferie ed era sottoposta a un duro apprendistato che passava per gli incarichi locali, le associazioni, le sezioni, i sindacati, poi i consigli comunali e quelli provinciali, poi (quando saranno istituite le regioni, ma in Sicilia c’era già) in quelli regionali. Poi nelle segreterie e negli organi centrali dei partiti e infine in parlamento e qualche volta alla guida dei ministeri. Poi si doveva tornare a dirigere gli organi decisionali locali, magari assumere la guida di una città, di una provincia o di una regione, per selezionare nuova classe dirigente in quelle che una volta si chiamavano le «correnti» dei partiti. Insomma un ceto di professionisti della politica, legittimati dalle grandi e rigide ideologie nazionali e internazionali, che vivevano «di» politica e «per» la politica. Oggi, dall’opinione pubblica, tutto questo viene considerato alla pari di un crimine, allora era un grande servizio alla democrazia.

Pio La Torre lasciava la facoltà di ingegneria, che gli avrebbe sicuramente garantito un futuro certo e sereno, per scendere dalla parte degli ultimi, di quei contadini che con le lotte per la terra «facevano tremare la terra», come vide Luchino Visconti. «Siamo diventati – ricorda Pio La Torre in un libro di memorie – partiti di massa nel fuoco di quel combattimento: decine e decine di quadri, la maggior parte ragazzi, giovani studenti e anche qualche intellettuale più maturo, professionisti, operai, ragazze che venivano mandate avanti a dirigere». Lasciava la casa, Pio La Torre, e andava a fare il lavoro politico per i comunisti e la Federterra. Il partito diventava la sua nuova casa, una seconda famiglia: avrà sempre ragione anche quando verrà contestato dai suoi stessi figli, dal Sessantotto in poi.
A fianco dei contadini La Torre occupava le terre, mentre mafiosi (altrettanto interessati a prendersi quelle terre) e poliziotti (facendo il gioco dei grandi latifondisti) sparavano contro tutto e tutti. La strage di Portella della Ginestra sarà il simbolo di tutti ciò. Dal 1949 al 1955, nelle lotte in difesa delle libertà civili, nella sola provincia di Palermo vi furono 884 lavoratori arrestati o fermati, 5.065 denunziati all’autorità giudiziaria, 1.886 condannati per 681 anni di carcere. Negli stessi anni in tutta la Sicilia vi furono 2.916 lavoratori arrestati o fermati, 7.708 denunziati, 4.960 condannati, per 1.330 anni di carcere. Dal 1944 al 1960, i dirigenti politici e sindacali che vennero uccisi dalla mafia a causa del loro ruolo nelle lotte contadine furono 52. Solo tra il 1945 e il 1950 se ne contavano 25. La Torre, con un pretesto e delle prove inventate, veniva arrestato nel 1950 e tenuto in carcere per un anno e mezzo. Il giudice Pietro Scaglione (che sarà poi il primo giudice ucciso dalla mafia a Palermo nel 1971) gli negava anche i colloqui con i familiari. In carcere rimaneva a causa della sua adesione a un’associazione politica e, come lui stesso ricorda, per «il clima d’allora e il comportamento di certi magistrati asserviti al sistema di potere mafioso».
Il diritto all’associazione, la libertà di partito, la lotta del sindacato erano per questa generazione così sacri da non potere neanche venire rinchiusi in gabbie giuridiche. Di fronte a un sistema giudiziario e investigativo così compromesso, solo il partito e il sindacato potevano portare avanti la lotta alla mafia. Cosa che La Torre fece per tutto il periodo della sua politica palermitana e poi come componente della commissione antimafia nazionale. Se la mafia era un problema di classi dirigenti, secondo La Torre solo la sconfitta di quel blocco storico ne avrebbe permesso la scomparsa. Nel tempo questa sua posizione sarà cambiata dall’amicizia e dal lavoro al fianco di un magistrato come Cesare Terranova (ucciso a Palermo nel 1979), il quale comunista non era, ma era stato eletto come indipendente nelle fila del partito e aveva contribuito a modificarne la linea, convincendo i suoi dirigenti a puntare sul reato associativo come strumento per sconfiggere la mafia; così come avveniva in quegli anni per il terrorismo, messo all’angolo, grazie all’uso di quella fattispecie, dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. La posta è altissima, per la storia del partito e per la storia personale di Pio La Torre; in cambio si chiedeva un grande compromesso con la Democrazia Cristiana, qui impersonata da Virginio Rognoni, cioè la rinuncia da parte di quest’ultima al dogma dell’inviolabilità dei patrimoni personali e del segreto bancario. I mafiosi capivano bene l’importanza di quel progetto che, se approvato, avrebbe portato alla fine della loro associazione criminale (e così accadrà). Da questo compromesso tra il PCI e la DC nascerà la legge Rognoni-La Torre, introdotta non già dopo l’assassinio di La Torre, bensì qualche mese dopo, quando a essere ucciso per le strade di Palermo sarà Dalla Chiesa.
La morte di Pio La Torre ne porta con sé anche un’altra, quella del partito comunista. Si tratta quindi di una doppia morte. In effetti la fine del compromesso storico segna anche la fine dei grandi partiti italiani, sebbene questa fu procrastinata per un altro decennio. In un mondo del tutto nuovo, quello della seconda repubblica, paradossalmente – come ricorda e scrive Franco, il figlio di La Torre – solo un politico ex fascista come Gianfranco Fini si premurava di fare una telefonata al sindaco di destra della città di Comiso che aveva cancellato la titolazione dell’aeroporto locale a Pio La Torre; non riuscendo a ottenere niente, Fini si giustificava dicendo che non esistevano più i partiti di una volta. Solo Fini sembrava ricordarsi dell’impegno contro la base missilistica e per la pace, che segnò l’impegno di Pio La Torre nei pochi mesi in cui era tornato in Sicilia.
La Torre venne ucciso, insieme al suo autista Rosario di Salvo, il 30 aprile del 1982, da un commando mafioso che tese loro un agguato, lungo la strada che li portava alla sede del partito di Palermo, bloccando l’auto e crivellandola insieme ai due occupanti sotto una pioggia di proiettili. Oggi, trentacinque anni dopo, in via Vincenzo Li Muli, così si chiama la strada dell’eccidio, è stata posta una lapide che ricorda «l’orrore del misfatto». Allora Rosario Di Salvo aveva 36 anni e Pio La Torre 54. La sua morte chiudeva definitivamente un’epoca, una grande stagione di lotte, un modo di pensare il partito e la politica: lo capiva subito Enrico Berlinguer che il 2 maggio, durante l’orazione funebre pronunciata davanti a migliaia di palermitani, diceva: «La Torre è caduto per quegli stessi principi che annunciava, alla vigilia del 35° anniversario di Portella della Ginestra».
Questo articolo è stato pubblicato dal Lavoro culturale il 30 aprile 2017

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