di Michele Fumagallo
Oggi, lunedì 6 marzo, alle ore 18, all’Archivio di Stato di Bari (via P. Oreste, 45), verrà commemorato Domenico Notarangelo, giornalista, fotografo e scrittore, nativo pugliese ma lucano e materano di adozione. “E fu subito Mimì: Mimì Notarangelo, le radici di Matera. Lo sguardo antropologico di un uomo profondamente vicino al popolo, testimone e memoria del cambiamento” è il titolo della manifestazione che vedrà numerosi esponenti politici e culturali soffermarsi sulla figura di questo appassionato cultore dei luoghi (Matera innanzitutto: indimenticabili le sue foto di scena sul “Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini di cui fu collaboratore e amico).
Domenico ci ha lasciati il 4 dicembre scorso a Matera, città dove viveva dagli anni Cinquanta del secolo scorso, all’età di 86 anni dopo una vita piena di interessi e curiosità. Lo conoscevo da un’eternità. E’ quindi difficile per me sintetizzare un rapporto che è durato infiniti anni (quanti? 40? Non lo ricordo più). Lo faremo magari con gli amici materani in seguito, e spero vivamente che non mancheranno occasioni.
Penso di essere stato il primo a far conoscere le sue foto pasoliniane in campo nazionale attraverso “Il manifesto”. Oltre a scrivere articoli ed interviste varie sul suo lavoro e sulla sua memoria, fotografica e non. Ho anche fatto per tanti anni da interlocutore per le sue cose e i suoi libri. Sono stato del tutto addolorato quando ho appreso della sua morte e, per la verità, ancora oggi mi mancano le sue periodiche telefonate. Eravamo diversi e per molte cose opposti (lo chiamavo anni fa, affettuosamente, il “simpatico conservatore”): lui comunista ortodosso, io comunista libertario.
Bisogna ricordarlo, certo anche con grande spirito critico (viva lo spirito critico, l’unico in grado di salvaguardare i rapporti autentici tra le persone), soprattutto in questo terribile periodo di manipolazione e occultamento della memoria. Tra i suoi numerosi libri di cui abbiamo discusso sempre prima della pubblicazione (felice ed entusiasta nell’annunciarmi un prossimo lavoro), ricordo soprattutto l’ultimo “E fu subito Lucania”, autobiografia per immagini che ogni lucano, ma anche ogni cultore di qualsiasi luogo, dovrebbe avere e sfogliare.
Per testimoniare la nostra amicizia, voglio offrire ai lettori del nostro sito due cose. La prima è la notizia di un incontro indimenticabile, un ricordo di circa sei anni fa quando ospitò me e Enrique Irazoqui a casa sua per l’intervista più lunga che l’attore del Cristo pasoliniano mi concesse e che poi sarebbe uscita su “Alias”, l’inserto culturale de “Il manifesto”.
La seconda è questo lungo pezzo-intervista che segue qui sotto su un viaggio di Domenico, allora fotografo e corrispondente de “L’unità”, in Unione Sovietica nell’estate del 1968 dell’invasione di Praga.
Era un pezzo congegnato per un pagina de “Il manifesto” dell’estate del 2012 che però non potette essere pubblicato per ragioni varie del giornale. Domenico raccontava per la prima volta ai lettori questo episodio che avrebbe poi pubblicato in volume in seguito. Lo offro ai lettori del nostro sito non solo come testimonianza di una cosa tragica e di due visioni (la mia e la sua) della realtà ma anche come testimonianza d’affetto per una persona amica e amabile.
Articolo di Michele Fumagallo
Della Primavera di Praga (il “socialismo dal volto umano”) e dell’occupazione sovietica della allora Cecoslovacchia non si parla più. Del resto sono passati 44 anni che hanno mutato radicalmente gli assetti dell’Europa e del mondo. La dimenticanza sarebbe quindi in qualche modo giustificata. Eppure, quando capita di imbattersi, magari casualmente, in quella stagione di fervore e di speranza ma anche di dolore e disperazione, tornano i ricordi e tutto quello che essi portano con sé, a partire da ciò che poteva essere e non è stato nella sinistra democratica in quanto a discussione avanzata e radicale sui regimi dell’ex impero sovietico.
Spulciando nell’archivio (finalmente riconosciuto di interesse anche dal Ministero dei beni culturali) di un vecchio militante dell’allora Pci, Domenico Notarangelo, ottantaduenne pugliese trapiantato dalla giovinezza a Matera, per anni corrispondente de “L’Unità” e fotografo con migliaia di scatti all’attivo, alcuni divenuti veri e propri oggetti di culto (quelli su Pasolini e Levi), mi sono imbattuto in alcune vecchie foto del Nostro durante un viaggio premio a Mosca nell’agosto del 1968 per corrispondenti di quel giornale oltre che per l’associazione degli Amici de “L’Unità”.
Accanto alle foto ci sono pagine di diario dal titolo significativo (“Cieli chiusi su Praga”) che raccontano quell’avventura trasformata da viaggio di studio e vacanza in un incubo e poi in un momento di riflessione sul proprio passato. Notarangelo lo fa in questo colloquio-intervista con chi scrive, due comunisti di generazioni diverse: la sua più ortodossa (per sua definizione), legata ai vecchi comportamenti del Pci, l’altra di formazione sessantottina che avrebbe incrociato fin dall’inizio il romanzo di formazione del Manifesto (“Praga è sola”, un anno dopo l’occupazione sovietica di quel paese, fu un memorabile titolo dell’allora rivista “Il manifesto”).
Allora, che ci facevi, in quei giorni prima e dopo l’invasione di Praga (le truppe del Patto di Varsavia occuparono la Cecoslovacchia nella notte tra il 20 e 21 agosto del 1968), a Mosca?
Niente, eravamo semplicemente in viaggio di studio e vacanza-premio per il nostro lavoro all’Unità e per le campagne abbonamenti al giornale. Ero stato tra i migliori in Italia e perciò venivo premiato con una settimana di viaggio tra Mosca e Leningrado.
Senonché?
Beh, successe quello che già si temeva: sul suolo cecoslovacco, mentre eravamo alla fine del nostro viaggio, imperversarono i carri armati russi e del Patto di Varsavia. E così divenni un piccolo testimone di quei drammatici avvenimenti destinati a sconvolgere la vita del popolo cecoslovacco e della prospettiva socialista dell’intera Europa.
Ma, in pratica, mi racconti cosa accadde?
Nella settimana di permanenza nelle due grandi città sovietiche, poco o nulla potevamo sapere di quanto stesse maturando in Cecoslovacchia, pur sapendo che la Primavera di Praga era una spina che il Cremlino prima o poi avrebbe cercato di estrarre dalle sue carni nazionalistiche e imperialistiche. Per sette giorni restammo come fuori dal mondo, in un paese dove i giornali italiani arrivavano con ritardo. Le uniche notizie ci giungevano per telefono, con la cautela che il caso imponeva a causa – e noi lo sapevamo – dei controlli che i servizi segreti sovietici usavano anche nei nostri confronti, pur essendo comunisti”.
Ma prima dell’occupazione di Praga come trascorresti insieme ai tuoi colleghi la settimana premio?
Potemmo solo visitare monumenti e istituzioni sovietiche: Cremlino, Piazza Rossa, cambio della guardia al monumento di Lenin, stazioni della metropolitana a Mosca; e a Leningrado la Basilica di San Pietro e Paolo, l’Hotel Astoria, il teatro Kirov, le redazioni e gli stabilimenti tipografici della Pravda, e poi qualche shopping nei berioska, gli unici negozi dove si poteva comprare in valuta straniera. E avere contatti esclusivi e ufficiali con dirigenti del partito sovietico. Nessun contatto con la gente, con il paese reale, quelli non erano ancora tempi di perestrojka e di glasnost. L’ombra di Stalin e di Breznev si allungava sulla paura della gente. La nostra permanenza in Urss terminò proprio quel 21 agosto 1968. Ma non sapevamo ancora quel che ci attendeva.
E cosa vi attendeva?
Ordine di levata alle sei del mattino e via verso uno dei quattro aeroporti di Mosca. Il nostro aereo era in partenza, almeno sul calendario, per le otto e mezza. L’attesa, invece, era destinata a durare a lungo. Per tre ore siamo rimasti in stato di isolamento, nessun contatto con l’esterno, ermeticamente chiusi in un salone. Senza neppure un bicchiere d’acqua. Con noi, fatto davvero strano, non c’era neppure qualcuno degli interpreti che ci avevano sempre accompagnati. Dopo questo tempo finalmente un interprete venne a comunicarci che l’attesa sarebbe durata ancora a lungo, perché i cieli su Praga erano chiusi. Questa notte, ci disse, alcuni carri armati delle forze del Patto di Varsavia sono stati chiamati in Cecoslovacchia dagli organi di governo e di partito per bloccare un tentativo controrivoluzionario. L’ordine di imbarco tuttavia arrivò intorno a mezzogiorno. Il nostro Iliuscin turboelica, già pronto sulla pista, doveva portarci a Roma con volo diretto utilizzando il corridoio aereo di Sofia: un salto di tre ore o poco meno e finalmente dovevamo mettere piede nell’aeroporto di Ciampino.
Invece cosa accadde?
Sull’aereo decidemmo di concordare un orientamento comune per dare risposte univoche ai giornalisti che sapevamo ci avrebbero bloccati nell’aeroporto romano. Tutti avevamo seguito le vicende di Praga e della sua Primavera, l’affetto per Dubcek e il suo socialismo dal volto umano, eccetera. Del resto era in linea con l’orientamento del Partito comunista italiano che guardava i fatti cecoslovacchi con simpatia e apprensione. Il partito di Luigi Longo era già sulla strada dell’eurocomunismo, quindi ci venne naturale orientarci su di una linea comune: quella sovietica era una invasione e una occupazione militare della Cecoslovacchia. Di questo discutevamo mentre eravamo sui cieli della Bulgaria. A Sofia però avemmo la prima sgradevole sorpresa: l’aereo fece alcune evoluzioni per prepararsi a un atterraggio di scalo. Ricordo ancora quel momento perché il sole dagli oblò mi orientava sulla direzione di rotta e fu una sorpresa quando il fascio di luce si stabilizzò in senso opposto a quello di poco prima. Apparve chiaro che non si atterrava più a Sofia e che l’aereo ci stava portando da qualche altra parte, certamente non verso Roma.
E verso dove?
Il volo durò tre ore e nessuno dell’equipaggio russo si preoccupò di informarci sulla prossima destinazione. Del resto era anche evidente che ci tenevano in stretto stato di isolamento dal personale di bordo. Quando infine arrivò l’ordine di allacciarci le cinture di sicurezza era già pomeriggio inoltrato e sotto di noi si stendeva un panorama marino. Scoprimmo di stare a Odessa solo al momento di lasciare l’aereo. Ci avevano riportati in Russia. L’aereo aveva già spento i motori da circa un’ora quando infine si aprì lo sportellone per farci sbarcare. Ai piedi della scala ci attendeva un cordone ben nutrito di militari graduati, una trentina di persone disposte in doppia fila e noi che dovevamo sfilare uno per volta consegnando i nostri passaporti. In quel momento avemmo la netta sensazione di essere trattati quasi come prigionieri di guerra. Poi fummo sistemati in tre salette intercomunicanti, completamente isolati dal mondo esterno come era già accaduto a Mosca, senza alcuna assistenza, affamati e assetati. Altra attesa di tre ore e passa mentre già il cielo si tingeva di notte.
Una bella suspence, non c’è che dire.
Eh, sì. Quando infine arrivò l’ordine di imbarco, ai piedi dell’aereo c’era lo stesso cordone di militari, volti duri, nessun cenno di cortesia come era capitato in precedenza durante gli spostamenti della settimana di vacanza. Prima dell’imbarco ci vennero restituiti i passaporti e finalmente l’aereo cominciò a rollare, poi il grande balzo sul Mar Nero verso i cieli italiani. Era passata da poco la mezzanotte quando l’aereo cominciò a volteggiare su Ciampino. Qui ci fu l’assalto dei giornalisti che pensavano di trovare sull’aereo anche Luigi Longo che invece era su di un altro aereo e si era fermato a Parigi. Con lui erano rientrati anche altri dirigenti del Pci in vacanza in quel paese, una vera e propria fuga perché ormai i comunisti italiani, per le note posizioni sulla situazione di Praga, erano ospiti indesiderati e non graditi. In assenza di Longo i giornalisti hanno dovuto accontentarsi di intervistare noi che però abbiamo solo potuto raccontare del nostro disastroso viaggio sui cieli di mezza Europa. Nella mattinata successiva in direzione del Pci a Roma ci hanno detto che il nostro aereo era stato dato per disperso. Terminava così un viaggio che in qualche modo ci aveva tenuti nostro malgrado al centro di una vicenda mondiale. Ma terminava anche qualsiasi illusione su quel paese e i nostri giudizi avrebbero preso strade del tutto diverse.
Adesso una domanda provocatoria inevitabile per un comunista antisovietico come chi scrive. Per la mia generazione non era proprio così facile capire e digerire il vostro comportamento: come facevate a mantenere insieme, in una posizione certamente democratica ma ambigua, la difesa della Primavera di Praga con i viaggi premio a Mosca?
I viaggi premio e le vacanze erano una consuetudine dovuta ai vecchi rapporti che c’erano tra Pci e blocco sovietico. Un rapporto ambiguo, concordo, che però, dopo quegli avvenimenti, mise a dura prova ogni ambiguità che risultò più chiara. A pensarci bene uno degli ultimi equivoci fu proprio l’espulsione del gruppo del Manifesto. Comunque, sì, è ovvio, bisognava capirlo prima. Tieni presente però che io, pur nella mia ortodossia, ero già in parte vaccinato per le mie inclinazioni culturali. In Puglia tenni un comizio, insieme ad altri dirigenti giovanili di partiti democratici, contro Stalin già nel 1952, quando il leader sovietico era ancora vivo. Ma alcune forme di conformismo sono difficili da rimuovere. Ricordo che quando incrociai nel 1964 Pasolini per qualche tempo a Matera per lavorare con lui al Vangelo secondo Matteo, le sue lezioni e provocazioni di anticonformismo furono straordinarie. Ma poi, sai, c’è un’educazione dura a morire. Del resto, non è un caso, se dopo quegli ultimi episodi del disincanto, vennero a Matera gli Uccelli, quel movimento strano che scelse la città dei Sassi per una delle sue ultime performance più eccentriche (ma avevano anche delle idee sul recupero dei quartieri antichi della città). Diventammo amici, e sai dove mi portarono quando andai a trovarli a Roma? A casa di Aldo Natoli, già cacciato dal Pci.
L’incontro con questo amabile e simpatico “conservatore” è finito, e ci soffermiamo a discutere e spulciare tra i documenti e le carte del suo interessantissimo archivio. E l’ultima riflessione, che facciamo insieme, è proprio quella sull’immenso tesoro nascosto che, nonostante tutto, cioè nonostante tutte le distruzioni del passato, la provincia italiana contiene. Ci sono, in ogni anfratto della penisola, tesori custoditi da persone ammirevoli, spesso lasciate alla loro solitudine quando non all’abbandono. Ecco: scavare, portare alla luce tutto questo dovrebbe essere non solo il compito di una forza sociale e politica autentica, ma una delle vere “grandi opere” per il futuro democratico del nostro paese.