Video intervista a Silvia Baraldini: gli ideali, l'arresto, il processo e gli scontri politici

25 Febbraio 2017 /

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di Raùl Zecca Castel
Il nome di Silvia Baraldini, in Italia, è legato in modo particolare alla vicenda giudiziaria di cui è stata – suo malgrado – protagonista e, soprattutto, richiama alla memoria lo scontro politico-parlamentare relativo alla sua estradizione dalle carceri statunitensi, avvenuta nel 1999. Ma il percorso di vita e l’esperienza rivoluzionaria che hanno segnato la sua gioventù rappresentano ancora oggi una preziosa testimonianza storica estremamente utile per la comprensione di un’intera epoca e restano, da ogni punto di vista, un esempio incorruttibile di abnegazione.
Nata a Roma nel 1947, Silvia Baraldini si forma negli USA, dove il padre lavora come diplomatico presso l’ambasciata italiana. Qui si avvicina ben presto al grande moto giovanile di protesta sorto per manifestare il proprio dissenso alla guerra in Vietnam, ma che trova nelle rivendicazioni femministe e anticolonialiste altrettante direttrici di opposizione ad un unico sistema capitalistico ed imperialista, riconosciuto come fonte di tutte le disuguaglianze sociali e dunque come nemico da combattere ma, soprattutto, da sconfiggere.

È così che a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento, Silvia Baraldini diviene una strenua sostenitrice del movimento afro-americano, in tutte le sue manifestazioni più radicali ed armate, convinta non solo del fatto che le condizioni in cui versa la comunità nera statunitense rappresentino l’espressione più violenta e brutale del dominio politico e sociale capitalistico ma, soprattutto, consapevole del fatto che solo l’unione tra i movimenti privilegiati dei bianchi con quelli più emarginati e abusati dei neri avrebbe potuto sfociare in una palingenesi rivoluzionaria.
Di qui il suo supporto militante ai gruppi più radicali del momento, dal Black Panthers Party for Self-Defens al Black Liberation Army, passando dalla May 19 Coalition, organizzazione di ideologia comunista in cui militarono alcuni membri dei Weather Underground.
Poi, nel 1983, l’arresto e la condanna: 44 anni di carcere. Silvia Baraldini viene accusata di aver organizzato e partecipato all’evasione e alla fuga di Assata Shakur, militante nera detenuta nel carcere di Clinton nel New Jersey, oggi esiliata a Cuba e ancora nella lista dei più pericolosi terroristi degli USA. L’operazione avviene senza spargimento di sangue, ma Baraldini subisce l’applicazione nei suoi confronti della legge RICO, ideata per combattere la criminalità organizzata e il terrorismo interno, dunque su di lei ricadono indiscriminatamente tutti i capi d’accusa che riguardano il movimento di cui è parte, compresa una rapina mai avvenuta.
Alla proposta da parte del FBI di scambiare la sua libertà con i nomi dei ‘complici’, Silvia Baraldini rifiuta e viene dunque trasferita a Lexington, nel carcere sotterraneo di massima sicurezza, dove trascorre quasi due anni in condizioni di totale isolamento sensoriale ammalandosi gravemente.
Nel 1999, infine, l’estradizione in Italia, con la garanzia però di continuare a scontare la pena in prigione. Fino al 2001, quando, proprio a causa della malattia, le vengono concessi gli arresti domiciliari.
L’ultimo atto di questo lungo accanimento giudiziario porta la data del 26 settembre 2006, quando, per effetto di un indulto, dopo 23 anni di detenzione, le viene finalmente restituita la libertà.
Silvia Baraldini non ha mai cercato attenzione mediatica e raramente ha scritto di sè, rilasciato interviste o testimoniato la sua sofferenza. Solo negli ultimi anni ha cominciato ad affrontare pubblicamente il suo percorso di vita, portando la sua esperienza nei centri sociali e in tutti quegli spazi disposti ad ospitarla ed ascoltarla.
Anche per questo ci tengo a ringraziarla ancora una volta per aver accettato di essere filmata per questa breve intervista rilasciata il 28 gennaio 2017 presso il Gratosoglio Autogestito di Milano (GTA) e per aver ricordato alcuni passaggi fondamentali della sua esistenza, dai primi contatti con il movimento afro-americano al ruolo della donna, dall’esperienza della prigionia alle valutazioni sull’eredità politica di anni che, comunque la si pensi, hanno segnato il corso degli eventi.
Questo articolo è stato pubblicato da Carmilla online il 22 febbraio 2017

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