1917-2017: cento anni fa la rivoluzione di febbraio, istantanee da due secoli

21 Febbraio 2017 /

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di Luca Mozzachiodi
Scrivo in una delle più alte ricorrenze che agli uomini sia dato ricordare, cento anni fa il 23 Febbraio (secondo il calendario giuliano) iniziava la rivoluzione che portò all’abbattimento della dinastia Romanov e alla fine dello zarismo. Fu infatti una rivoluzione con una veste, ma solo una veste, borghese, che reclamava la fine di una monarchia de facto autocratica e incapace di agire di concerto con un governo di facciata, inoltre richiedeva maggior tutela delle libertà di associazione e di espressione e un parlamentarismo sul modello di quelli dell’Europa Occidentale.
Queste grosso modo le richieste del governo provvisorio, che come noto cercò sì di fronteggiare il crescente disagio (simpatico eufemismo che designa oggi sulla pagina egualmente un sorriso imbarazzato e diciassette milioni di soldati di leva al fronte e quattro milioni di morti nonché un semicontinente ridotto alla fame), ma continuando la guerra, solo i comunisti e i socialrivoluzionari vedranno la pace come un obiettivo a tutti i costi per fermare una carneficina imperialista.
Ugualmente poco si adoperò per la riforma agraria, grande traguardo desiderato da un paese sconfinato e totalmente agricolo eccetto che per le città maggiori. Nella campagna russa la liberazione dalla servitù aveva rappresentato poco più che un miraggio e la distinzione tra servo e bracciante pagato era praticamente inesistente e certamente anche quella del contadino di villaggio non era una condizione di molto migliore, né migliore la terra dei villaggi, ovviamente, rispetto a quella delle grandi proprietà.

Ma poco senso ha, in queste note, fare della storia già risaputa, seppur scordata troppo volentieri dato che non manca mai qualche elogiatore di Rasputin da finto salotto buono. Più senso ha per questo breve ricordo soffermarci su alcune istantanee, per così dire, di quel grande Febbraio ’17 per leggervi in controluce alcuni riflessi di oggi.
La prima immagine è quella del soldato che spara sul soldato, del dragone che si ribella all’ufficiale, del poliziotto che non esegue gli ordini, scene ripetutesi frequentemente in quei giorni convulsi. Principalmente a questo è dovuta la vittoria immediata degli insorti, che diversamente avrebbe potuto dare luogo a lunghi scontri; il parlamento sapeva benissimo che se avesse perso il controllo sullo strumento repressivo della forza, se i fucili con le gambe fossero tornati ad essere uomini e cittadini non ci sarebbe stata nessuna speranza per la classe dirigente e per lo zar, così è stato.
In quegli anni troppi figli e figli di figli avevano cambiato l’aratro per le baionette mandando in rovina famiglie perché non si domandassero nemmeno una volta non la legittimità, dato che ogni potere che emana la legge è legittimo, ma la sensatezza e il vantaggio di eseguire ordini di repressione violenta. Non a caso i Soviet erano Soviet di contadini, operai e soldati, cosa ci ricorda questa fotografia oggi?
Ci ricorda, io credo, che le armi, ivi inclusa la pistola del poliziotto vicino di casa con cui magari prendiamo il caffè, sono fatte per uccidere e ferire, non per altro, e che questo altro, per esempio lo sgombero di uno spazio è solo un riflesso della deterrenza, in termini meno astratti una conseguenza della paura e del dolore. I soggetti che quelle armi reggono, che bastonano, caricano, sparano lacrimogeni, torturano etc. etc. sono semplicemente estensioni particolari di una forza che ha sede altrove, o meglio, a tali sono ridotti se essi accettano e noi per loro accettiamo, uno stato di cose che può essere contestato, ordini da disattendere, una morale che non può essere sospesa.
Proprio perché nel 1917 il soldato sparò al soldato che sparava sulla folla possiamo, noi che festeggiamo questo centenario, condannare il poliziotto che decide di non parare, con il suo bello scudo di plexiglass foggiato appositamente, il colpo che il compagno accanto a lui sta calando sul volto di un disarmato e impreparato, per non dire innocente. Si rende complice, suo malgrado magari ma complice, di un atto di violenza inutile e oltraggioso (l’oltraggio del forte che aggredisce il debole) per nulla meno di chi non frena risse e provocazioni dai cortei. Se non siamo più capaci di capire questo non ha davvero alcun senso che si parli di Eichmann o di qualche dittatore in continenti lontani, basta davvero molto meno. (qui una nota di servizio per il lettore che forse non li ha mai visti usare: i manganelli non servono a riordinare gli spazi pubblici, per quello ci sono le comunissime scope, gli scaffali, gli archivi, le etichette e tante altre cose, i manganelli servono a provocare lividi e contusioni e a fratturare le ossa).
La seconda immagine è quella dei membri della Duma, il parlamento russo, che sono riuniti in seduta straordinaria e, avvisati da un marinaio che una folla di soldati e operai si dirigeva verso il palazzo, tremano addossandosi gli uni agli altri. Divisi per anni in lotte politiche interne alla borghesia o all’aristocrazia e al capitale, cioè nel versante politico della concorrenza, si trovano ora accomunati dalla paura di un nuovo nemico, lo stesso che hanno calpestato e sfruttato per decenni. Di fronte alla lotta di classe evidente come tale e ad una classe lavoratrice cosciente i veli mistificatori cadono e le contrapposizioni si fanno aperte, non fazione contro fazione, partito contro partito, ma appunto classe contro classe e sfruttatore contro sfruttati.
Intendiamoci non vuole essere un racconto pacificante o semplicistico, simili momenti sono frutto di condizioni particolari, che però possono essere politicamente studiate, pianificate, orientate, da intelligenze decise e preparate oltreché da un salto nella coscienza collettiva: rivoluzione è quando tutti imparano da tutti, non quando l’élite progressista dice che cosa fare contro l’élite reazionaria.
Oggi le relazioni sociali e le strutture economiche sono complesse, tutti siamo in parte sfruttatori e quasi tutti anche sfruttati; sono dunque certamente parziali quei racconti che presentano l’accaduto solo come la riscossa del nostro novantanove per cento (e cionondimeno è stato anche il riscatto dall’oppressione del novantanove per cento) con un’immediata analogia di un secolo. Quella folla di soldati e operai e quel pugno di acerrimi nemici abbracciati e piagnucolanti ci ricordano però, oggi, che esiste l’uno per cento, quello che detiene più della metà delle ricchezze mondiali, accumulate con il lavoro della maggior parte dell’umanità, ed esiste ovviamente il 99% (stratificato al suo interno certo, ma comunque che si spartisce solo la metà).
Simili consapevolezze, certamente con fiducia eccessiva, guidavano molti socialisti e comunisti nel pensare che le contrapposizioni e la miseria creata dal capitalismo avrebbero raggiunto un livello tale da essere insostenibile e sfociare matematicamente nella rivoluzione, cosa non vera. Ma a cento anni di distanza da quei giorni men che mai è vero il contrario, cioè che simile realissima miseria che torna a crescere ogni giorno di più e tali aspre contrapposizioni non possano mai sfociare in una rivoluzione.
In fin dei conti questo centenario ci ricorda che la storia compie dei salti improvvisi e che il 22 febbraio la corte imperiale e i membri della Duma dormivano sonni tranquilli e che Nicola II credette che fosse l’ennesima rivolta da sedare con qualche promessa e qualche arresto anche quando i suoi soldati con il fucile in spalla fermarono il suo treno e gli chiesero di identificarsi alle forze del Soviet di Pietrogrado.

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