Lo stato della città: turismo a Napoli

10 Febbraio 2017 /

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di Annunziata Berrino
Il rapporto tra Napoli e il turismo è fondante nella storia di questo fenomeno della modernità occidentale, che per molti aspetti ha maturato proprio qui i suoi caratteri. E tuttavia Napoli è una delle città che meno si è impegnata a ricostruire e interpretare la propria vicenda; certo, si dirà, il turismo è futuro, e tuttavia l’assenza di riflessioni sul proprio percorso è anche indice di importanti criticità, che hanno inevitabili riflessi sullo stesso governo del fenomeno.
Tra secondo Settecento e primo Ottocento, Napoli è in assoluto la città più amata e desiderata in Europa. La cultura occidentale elabora, definisce e matura il canone stesso della bellezza di una città moderna proprio sul profilo di Napoli. O meglio, Napoli riesce a rispondere con i suoi caratteri a tutte le istanze della modernità occidentale: prima di tutto alimenta lo scientismo, offrendo le grandi attrazioni sismiche e vulcanologiche, poi soddisfa il nuovo canone di classicità, che non è più centrato sulla magnificenza dei luoghi pubblici, ma su un sentire privato, individuale, che legittima una rapporto intimo e personale con la classicità; infine, è capace di rispondere alle potenti istanze romantiche, grazie alla sua sensualità, alla varietà del paesaggio, al colore popolare, alla potenza della sua musicalità.

Sono questi gli elementi che fanno di Napoli una delle più belle città del mondo, e ancora oggi chi vuole attingere alle radici della modernità occidentale non può che considerarne la visita come un’esperienza irrinunciabile. È questa una premessa solo apparentemente teorica, perché l’immaginario turistico si spiega proprio con la complessità delle sedimentazioni culturali.
Il passato e il presente
Dunque l’Europa, che arriva a Napoli in pellegrinaggio, ne diffonde i caratteri e ne alimenta la fama, ma contemporaneamente vi attinge a piene mani per costruire la propria modernità. L’importanza di Napoli nel turismo è tutta in questa dinamica, e non è poco. È un incantesimo destinato a durare almeno fin oltre la metà dell’Ottocento, nonostante che il governo borbonico ostacoli pesantemente il movimento in città con la propria politica poliziesca, restrittiva e vessatoria. La successiva annessione al Regno d’Italia consente maggiore libertà di azione ai visitatori e agli operatori, in particolare stranieri, ma di fatto la perdita di status di capitale ne modifica profondamente il profilo sociale, spezzandone molti fili vitali.
Nonostante ciò Napoli, nella fase espansiva di età liberale, forte di un immaginario già così strutturato, è naturalmente molto amata dai progettisti della nuova modernità, non solo perché è di fatto, in potenza, un campo di sperimentazione, ma anche perché la città attende investimenti e politiche nell’industria e appare naturale che essi siano accompagnati da interventi significativi anche nei servizi. Ai primi del Novecento è viva dunque l’idea di rilanciare l’eccezionale attrattiva della città, di ridisegnarla profondamente, di provare anche qui la dialettica avvincente tra l’antico e il moderno, come a Venezia, come a Roma, come a Parigi. Tuttavia su nessuna città come su Napoli la scelta industrialista spegne ogni progetto di rilancio nel comparto dei servizi. In nessuna città come a Napoli si riflette l’incapacità politica e culturale, caratteristica del caso italiano, di gestire congiuntamente lo sviluppo dell’industria e quello dei servizi, di conciliare antico e moderno.
In verità, gli interessi privati nel comparto turistico hanno già da tempo abbandonato la città e si sono spostati nei centri minori del golfo e sulle isole – a Sorrento e a Capri – dove già ai primi del Novecento hanno trovato piazze più libere e tranquille. In città dunque il capitale non investe nel turismo, limitandosi a rispondere in maniera occasionale a una domanda nazionale e internazionale che comunque resiste e che non accenna a spegnersi. Ma sono interessi che non solo non hanno la forza di generare cultura del lavoro, ma nemmeno la convinzione politica necessaria per operare pressioni, ma su questo torneremo più avanti.
Nella politica fascista Napoli è individuata come snodo di scambi e di servizi e ponte per l’Oltremare, ma il rafforzamento dell’appeal turistico attuato dal regime avrà una pesante battuta d’arresto a causa delle distruzioni arrecate dal secondo conflitto mondiale. La ricostruzione sarà veloce ma subito sarà surclassata dagli investimenti dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, che daranno un’ulteriore spinta all’industria e lasceranno fuori dagli investimenti nel turismo proprio Napoli, in quanto centro urbano, prediligendo i centri costieri minori.
Negli anni Settanta la drammatica congiuntura internazionale, dovuta alle crisi petrolifere, si abbatte sulla città insieme a una devastante epidemia di colera, che scoppia nell’estate del 1973. Proprio negli anni in cui la pratica turistica dominante è la balneazione marina nella stagione estiva, la vita di spiaggia a Napoli e sulle coste limitrofe d’estate è totalmente bandita. Il mare si allontana ancora di più da Napoli. E dopo il violento terremoto in Irpinia del 1980, che ha effetti anche sulla città, in particolare sulle aree più fragili del centro antico, Napoli diventa una destinazione off limits.
La dismissione dell’industria petrolchimica ha effetti economici e sociali drammatici e accomuna Napoli al dramma del degrado ambientale delle città industriali dell’intero occidente. Alcuni centri urbani sperimentano con maggiore prontezza processi di riqualificazione, di riconversione, in una parola di gentrification, attivando la rivalutazione del proprio patrimonio immobiliare mediante ricostruzioni radicali, e contemporaneamente avviando attività sostanzialmente incentrate sui servizi e dunque sul turismo, e rivolte proprio a nuovi segmenti sociali impiegati nel terziario avanzato. Bilbao, Barcellona, Genova, Milano, Torino sono solo alcuni esempi notissimi.
Lo smantellamento dell’industria pesante restituisce subito al golfo una bellezza e una luminosità del paesaggio che sembravano ormai pregiudicate, ma certamente non basta. Dai primi anni Novanta, anche Napoli cerca di agganciare la ripresa delle città ora definite “d’arte”. Nel 1992, per iniziativa della fondazione privata Napoli Novantanove, parte un’iniziativa di apertura al pubblico di tanti beni culturali del centro antico chiusi da decenni: diventerà l’appuntamento del Maggio dei monumenti. Nel 1994 Napoli ospita il G7; lo stesso anno la pedonalizzazione della centralissima piazza Plebiscito viene presa a simbolo dell’avvio di un processo di recupero della vivibilità della città; l’anno dopo l’intero centro antico, considerato il più vasto d’Europa, è dichiarato patrimonio dell’umanità. Nel 1995 viene completato il Centro Direzionale: è un’opera che nonostante interessi il recupero di aree dismesse e sia di eccezionale rilevanza architettonica e urbanistica, è destinata a non suscitare nessuna forma di attrazione nella pratica turistica. È un segnale di non poco conto. Di fatto il turismo rivuole Napoli, e rivuole la Napoli del centro storico, che solo alla fine degli anni Novanta è fatto oggetto di un parziale master plan, che mira ad attivare un reticolo di isole di mobilità dolce. Finalmente nel 2000 viene abbattuto il muro del Varco Angioino, preludendo così simbolicamente al ricongiungimento della città al suo mare, operando una chiara citazione, ma dagli effetti assai limitati, al recupero del water front attuato da altre città portuali industriali.
Sono interventi isolati ma che vengono subito colti dalla pubblicistica specializzata. Nel 2001 la testata Condé Nast Traveller: alla scoperta dei luoghi più belli del mondo dedica a Napoli un volume semplicemente didascalico, ma che contribuisce a ricollocare nell’immaginario turistico italiano una destinazione che mancava da troppo tempo. La città turistica è quella storicamente nota al turismo: Spaccanapoli, il Museo Archeologico Nazionale, piazza Plebiscito, Napoli sotterranea, il lungomare, l’edilizia religiosa, i Quartieri Spagnoli, e poi i dintorni più classici, vale a dire i Campi Flegrei, il Vesuvio, Pompei, Ischia, Ercolano e Procida, oltre alla gastronomia e ai musei di Capodimonte, San Martino e duca di Martina. Nonostante sia la Napoli storica a essere richiesta dal mercato turistico, dopo un venticinquennio di assenza, essa appare come una sorta di destinazione inedita.
Da questo momento Napoli si inserisce con maggiore convinzione nella tendenza che vede grandi centri urbani ex industriali trasformarsi in città d’arte, proponendo anch’essa recuperi, riaperture, inaugurazioni. Ricordiamo solo che nel 2005 nel cuore storico di Napoli, la Regione Campania acquista un immobile ottocentesco, il Palazzo Donnaregina, destinato a ospitare il Madre, un museo di arte contemporanea, e che lo stesso anno il comune inaugura il Pan, il Palazzo delle arti, collocato nel settecentesco Palazzo Carafa di Roccella acquistato nel 1984.
Ma la grande attrazione, anche turistica, è sicuramente la nuova metropolitana che con audacia estrema avanza nel ventre di Napoli, tesaurizzando patrimonio archeologico fresco di scavo e accumulando arte contemporanea. I lavori, avviati nel 1976, erano stati bloccati dal sisma del 1980 e in sostanza solo dopo vent’anni, tra infinite varianti, cominciano a essere aperte, una dopo l’altra, le prime cosiddette stazioni dell’arte. Un’opera faraonica.
E in tema d’infrastrutture, il turismo s’interessa con particolare attenzione all’importante riqualificazione dell’aeroporto di Capodichino. Dai 4 milioni di passeggeri in arrivo, in partenza e in transito registrati nel 2001, si arriva ai 5,5 milioni del 2010 e ai circa 6 milioni nel 2015, su una struttura la cui capacità di carico può raggiungere comunque i 10,5 milioni. Una tendenza positiva, ma in assoluto una mole di traffico limitato, su cui pesa ancora l’assenza di un collegamento diretto con il nodo ferroviario e con la rete urbana metropolitana, collegamento progettato ma previsto solo per il 2020.
Tendenza positiva e interesse del turismo si registrano anche sul fronte del porto. Proprio a partire dagli anni Novanta il crocierismo fa il suo ingresso, o meglio ritorna, nel Mediterraneo. È ben noto che si tratta di una pratica turistica che nel mare caraibico in quegli anni aveva già assunto i caratteri di una vacanza popolare, di basso valore economico e culturale e di elevato impatto ambientale, ma in poco meno di trent’anni la comunicazione commerciale delle grandi compagnie crocieristiche è capace di imporla come vacanza di status anche nel Mediterraneo, spingendo tanto il mercato da riuscire a raggiungere circa 10 milioni di passeggeri transitati per i porti italiani nel 2015. Una quota importante è rappresentata proprio da Napoli. I 400 mila passeggeri registrati nel 2000, raddoppiano nel 2005, diventano oltre 1 milione e 100 mila nel 2010 e oltre 1 milione e 250 mila nel 2015. Per un raffronto, ricordiamo che Venezia raggiunge 1 milione e 700 mila passeggeri e Civitavecchia supera i due milioni. Il valore economico del settore crocieristico a Napoli non è stato ancora fatto oggetto di studi specifici, come per esempio quelli condotti per il porto di Livorno. Solo per fornire qualche dato molto generale, si sa che la spesa a terra per ogni crocierista che si muove autonomamente va dai 25-40 euro circa spesi in trasporti, artigianato, ristorazione e altro, mentre raggiunge i 60-65 euro per quanti scelgono un tour organizzato. Ben poca cosa. Per Napoli si tratta di valutazioni che andrebbero comunque verificate e alle quali vanno aggiunte le spese a terra degli equipaggi e le spese portuali.
Al movimento escursionistico prodotto dal crocieristico si aggiungono gli oltre 3 milioni di presenze turistiche registrate nel 2015 nelle strutture ricettive cittadine; anche questo dato è in crescita, se ricordiamo che nel 1993 erano 1 milione e 100 mila e nel 2000 erano circa 1 milione e 700 mila – su un’intera provincia di Napoli che registra ogni anno intorno ai 10 milioni di presenze. Per il 2014 Napoli ha incassato 3,5 milioni di euro di tassa di soggiorno, e per un utile raffronto ricordiamo che nel 2015 Firenze, con i suoi 9 milioni di pernottamenti, ha ricavato 28 milioni di imposta di soggiorno, ai quali si conta di aggiungere un gettito di altri 10 milioni, estendendo l’imposta anche alle 7.500 abitazioni affittate. Anche questo confronto è significativo.
Il turismo che non diventa cultura
Dopo circa trent’anni di ripresa di Napoli nel turismo i numeri sono certamente in crescita in assoluto, ma la loro debolezza relativa impone altre considerazioni che attengono alla governance e alla visione stessa del fenomeno da parte della cultura cittadina. L’analisi del turismo a Napoli non può omettere qualche considerazione sul contesto nazionale e regionale. A livello nazionale ricordiamo che il piano strategico promosso dal ministro Gnudi del governo Monti nel 2013 – mai attuato e di cui si riparla nell’ambito del ministero Franceschini – tagliò fuori la città dai grandi attrattori di arte e shopping della moda italiana interessanti i grandi flussi intercontinentali, mancando anche di attribuirle un ruolo di riferimento rispetto alle regioni meridionali. Dall’altra parte, a livello regionale, ricordiamo che il turismo in Campania attende una legge ormai da 33 anni e che nel frattempo conserva enti mortificati nelle loro funzioni: sono i 5 Enti provinciali per il turismo e le 15 Aziende autonome di cura, soggiorno e turismo, tutti istituiti con disposizioni del regime fascista e da allora, di decennio in decennio utilizzati come strumenti di distribuzione e miope consenso politico.
L’assenza di politiche è certamente uno dei motivi per i quali alle eccezionali risorse profuse negli interventi materiali di rigenerazione urbana non ha corrisposto un impegno pubblico di un qualche rilievo per incoraggiare e accompagnare la popolazione residente a praticare nuovi modelli di scambio culturale ed economico. Nel migliore dei casi hanno sopperito l’associazionismo e l’impresa privata, ma andrebbe verificato con quali risultati. D’altra parte nel discorso pubblico il turismo non è mai affrontato nella sua complessità: investimenti, infrastrutture, beni culturali, immaginario, formazione, relazioni umane e politiche restano argomenti separati gli uni dagli altri e gli ultimi quattro sono sostanzialmente, più o meno in buona fede, affidati allo spontaneismo.
Segno più e segno meno, marketing, promozione e aiuti alle imprese rappresentano il mantra nel quale in genere si esaurisce un discorso politico che solo da poco ha cominciato ad avventurarsi sul terreno del turismo; discorso politico che non sa e che non vuole governare il fenomeno, che invece ha ormai accumulato in questi decenni un ritardo straordinario nella cura dell’immaginario, nella formazione professionale, nella cultura diffusa dell’ospitalità e nelle politiche specifiche. Fin dai primi anni di questa ripresa, nella produzione di immaginario, in particolare gli enti pubblici scambiano per cultura turistica il colore della città, laddove la cultura turistica è ben altro, essendo il prodotto attentamente elaborato del lavoro nel turismo, ovvero di tutte le infinite forme di servizio che ne sostengono la pratica e l’economia: dalle governanti alle guide turistiche, dagli autisti ai tipografi, dai fotografi ai traduttori, dai massaggiatori ai pizzaioli, dagli statistici ai designer, e così via. Questa cecità non dà dignità al lavoro perché non riconosce e non distingue competenze e profili professionali. La formazione nel turismo in regione e in città è un capitolo drammatico ed è comunemente considerata inutile; in questo modo l’impiego nel turismo, specie da parte dei giovani, non è percepito come l’ingresso in un sistema di posizioni complesse, nel quale poter coltivare aspirazioni di miglioramento, ma una forma temporanea di occupazione priva di qualifica. Dunque il lavoro nel turismo non riesce a farsi cultura.
La qualità scadente della produzione della comunicazione turistica, verbale e iconografica, e in particolare di quella prodotta dagli enti pubblici, è solo la punta dell’iceberg di questa criticità. Solo a modo di esempio evidenziamo come ogni occasione sia buona per intellettuali, politici e amministratori per tritare e ritritare il binomio Napoli-Grand Tour senza alcuna forma di consapevolezza storica, laddove il vero binomio è Napoli-turismo, che però evidentemente appare troppo prosaico.
Abbiamo visto come Napoli abbia agganciato la tendenza delle città ex industriali, riproponendosi anch’essa come città d’arte. Ma il rapporto tra turismo e cultura a Napoli non è un rapporto scontato e anche su questo binomio va aperta una riflessione. Prima di tutto ricordiamo che resiste nella percezione comune un’identità turistica nazionale assimilata e ricondotta ai beni culturali e, in una lettura assai semplificata, troppo spesso gli assessorati al turismo si considerano organizzatori di eventi e finanziatori di produzione culturale; dall’altra parte, ancora troppo spesso si chiede alla cultura di liberarsi dal grigio e dalla polvere e di attirare turisti, in una confusione di ruoli che danneggia sia il turismo sia la cultura.
È uno strabismo già presente nella storia del turismo nazionale e che si è riproposto in questi ultimi decenni, proprio nelle città come Napoli, che da ex industriali si sono votate all’attrazione culturale. Lo strabismo dunque non consente di vedere e di trattare il turismo per quello che realmente è, vale a dire una complessa attività di coordinamento di servizi alla popolazione ospite ma anche e soprattutto alla popolazione residente. Tocchiamo così il nodo della questione. Chi scrive ritiene che la pratica turistica sia la più alta e la più delicata prova di qualità di cittadinanza. Il turismo vince laddove uomini e donne, siano essi ospiti, visitatori o residenti, percepiscono a tutti i livelli, di essere garantiti nell’informazione, nella qualità, nella sicurezza, nella fruizione dei servizi, nella libertà di movimento e di esperienza. Non credo sia necessario elencare le criticità che presenta una città come Napoli in tema di cittadinanza. E anche su questo la qualità umana, la forza dell’improvvisazione, lo spontaneismo e il colore popolare non possono sopperire. È necessario ripensare il rapporto tra cultura e turismo e se intendiamo il turismo come il più alto esercizio di cittadinanza nei luoghi di accoglienza, oltre che importante fattore economico, allora il turismo non può ignorare ciò che genera. E ciò che genera non sono solo i profitti, ma anche tanta cultura.
Questo testo, uscito su Inchiesta online il 5 febbraio 2017, è un estratto del libro Lo stato della città: Napoli e la sua area metropolitana (Edizione Napoli Monitor) a cura di Luca Rossomando, direttore della rivista Napoli Monitor

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