Il partito: perché si è persa la sua dimensione collettiva – Terza e ultima parte

23 Gennaio 2017 /

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di Sergio Caserta
Quando l’attacco al «centralismo democratico» del Pci diventa, come è diventato, attacco ai partiti in quanto tali (alla così detta «forma-partito»); quando si condanna tutto ciò che non sia puro movimento d’opinione; quando l’attacco è diretto a denigrare ogni sforzo teso a organizzare la società attorno a un fine, è diretto contro ogni scala di valori che non sia quella gratuita e imprevedibile che viene confusamente e contraddittoriamente espressa dal moltiplicarsi degli appetiti egoistici dei singoli, dallo sfarinarsi della società in una miriade di nuclei corporativi e delle lotte al loro interno, dall’accentuarsi dell’induzione al consumismo; ebbene quando awiene tutto questo, e questo sta avvenendo, non dovrebbe essere difficile capire che l’attacco non riguarda solo il Pci ma tutti i partiti che tendono ad organizzare le masse e a ordinare in modo nuovo la società in vista di certi ideali.
Enrico Berlinguer (Articolo su Rinascita 1979)

Nel periodo della sua massima ascesa, il decennio degli anni ’70, il Pci rappresentò un fenomeno di straordinario interesse, una novità clamorosa nel panorama politico dell’Italia, fino ad allora dominata dalla “tranquilla” centralità democristiana. Non che negli anni precedenti il Pci non avesse contato nelle vicende politiche, tutt’altro.
Se c’era un partito influente e comunque incisivo nell’ottenere risultati era quella “giraffa” togliattana che sapeva essere dura opposizione allo strapotere democristiano ma anche sapiente mediatrice degli equilibri costituzionali che avevano rappresentato l’ancoraggio democratico inattaccabile delle Repubblica nata dal crollo del fascismo e dalla Resistenza. Giova ricordare per tutti le vicende del tentativo sventato di golpe del piano Solo del Sifar, le dimissioni de governo Tambroni dopo i fatti di Genova e Reggio Emilia e quelle del presidente della Repubblica Leone, fatti che dipesero anche, se non soprattutto, dalla forte influenza del Pci sul quadro politico istituzionale.

L’avvento di Enrico Berlinguer alla guida del partito, prima come vicesegretario di Longo e poi dal 1971 come segretario generale, fu la vera svolta innovatrice. Non che Berlinguer fosse noto per furori rivoluzionari, tutt’altro, la sua carriera era stata all’insegna della più tradizionale ortodossia e della mediazione paziente; si conobbero poi, i tratti del suo forte temperamento e del suo carisma.
Il Pci di Berlinguer era un partito che aveva nel collettivo la sua forza essenziale, la qualità politica e culturale (ed anche umana) di gran parte del gruppo dirigente erano di caratura decisamente elevata, basta pensare a figure come Longo, Ingrao, Amendola, Pajetta, Chiaromonte, Tortorella, Natta, Iotti, Reichlin, La Torre, Di Giulio, Terracini, Napolitano, intellettuali come Giuseppe Chiarante, Luca Pavolini, solo per citare alcuni dei più noti: un gruppo dirigente che proveniva da esperienze diverse, alcuni anche dalla più giovane leva resistenziale, formato soprattutto nel dopoguerra, nelle aspre lotte sociali per l’affermazione dei diritti che erano ancora negati nelle grandi battaglie di democrazia.
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La figura di Berlinguer si affermò prepotentemente anche dal punto di vista mediatico, soprattutto dopo le vittorie nel referendum sul divorzio ed in quelle elettorali del 1975 e ’76, quando il Pci raggiunse il consenso più ampio della sua storia.
Il carisma autentico che, grazie anche alla tv, lo rese in poco tempo un idolo, era connotabile esattamente con i tratti dell’anti-leader: era nella semplicità schiva, ai limiti della modestia, dei suoi modi e insieme nella forza e nella fermezza delle opinioni; non c’erano mai alterigia né supponenza nel suo rapportarsi agli interlocutori, fossero anche i più distanti, pur nella ferrea è quasi puntigliosa difesa del suo punto di vista, in una concezione dialettica delle relazioni.
Fino a un certo punto, si sapeva poco delle differenze d’opinione all’interno della Segreteria e della Direzione, i più attenti s’informavano seguendo i diversi editoriali sull’Unità o su Rinascita, dove le differenti posizioni emergevano con più evidenza, ma il dibattito interno era sempre molto forte (al riguardo è illuminante la biografia di Berlinguer dello storico Francesco Barbagallo basata sugli archivi del Pci) e Berlinguer – per l’articolazione delle posizioni e per l’autorevolezza dei suoi colleghi che la facevano ben pesare – doveva faticare non poco per arrivare alla sintesi unitaria.
Questa dialettica poi si concretizzava in forti decisioni che, certo, assumevano – nella formula del “centralismo democratico” – un carattere pressoché assoluto ma venivano in effetti discusse molto e a lungo nel corpo largo del partito, anche se, per così dire, in modo retrospettivo; le discussioni però non erano affatto formali ed anche alla base il dissenso era ammesso e fungeva da cartina di tornasole della validità delle proposte.
Ciò fu molto evidente nella cosiddetta stagione del “governo delle astensioni” e successivamente con l’entrata del Pci, anche se per un breve periodo, nell’area della maggioranza, quando si registrò un dissenso diffuso e in non pochi casi un aperto conflitto con quelle scelte che a una parte ampia della base degli iscritti apparivano già come un compromesso deteriore.
Non a caso, alcuni anni dopo quell’esperienza così impegnativa e soprattutto dopo la morte di Moro, Berlinguer formulò la proposta dell’alternativa democratica che delineava un percorso del tutto diverso dal compromesso storico, se pur nel permanere di una visione ampiamente unitaria delle forze democratiche.
La vita del partito era, a tutti i livelli, ricca e animata, nutrita dal confronto di idee, da una lotta politica alta e da iniziative diffuse in tutto il paese. Il Pci era un corpo vivo pulsante, in collegamento con tutta la società, brillava per l’intensità e l’estensione delle sue attività, era un punto di riferimento per il mondo della cultura e dell’arte, della ricerca scientifica, dell’innovazione dei linguaggi a tutti i livelli, all’avanguardia nel processo di modernizzazione del Paese ma ben radicato nel popolo, sempre vicino al mondo dl lavoro e dei deboli: un partito, che, pur con limiti, difetti ed errori e fin quando quella energia propulsiva lo alimentò, rappresentò una realtà fondamentale per il Paese.
Ciò che si riflesse sulla considerazione di cui godeva anche a livello internazionale, non solo in quanto il più forte partito comunista dell’Occidente ma anche in quanto soggetto autorevole ed ascoltato nei consessi più diversi, sia nel mondo vicino dei paesi socialisti che allora era ancora numeroso, sia tra i leader di movimenti e partiti lontani, come i “non allineati” di cui fu una delle voci più autorevoli.
Molto dipendeva dalla fermezza con cui Berlinguer aveva interpretato la linea di autonomia nel liquidare definitivamente il legame con Mosca, ed anche quello fu il risultato di un’aspra lotta interna, come ha messo in luce Barbagallo; ma era tutto il Pci a incarnare con la sua attività la tensione verso la prospettiva di una democrazia progressiva e di un nuovo socialismo nella libertà che rappresentavano la sintesi migliore dello spirito costituzionale del Paese.
Il Pci non era il “partito di Berlinguer”; piuttosto, Berlinguer rappresentò il Partito come nessun altro avrebbe potuto fare in quel periodo.
Oggi che i leader si comprano “a buon mercato” sulle piazze televisive, occorrerebbe riflettere profondamente su cosa significa veramente costruire un progetto politico che abbia la forza di durare nel tempo e non alimentare fallaci illusioni di rapide scorciatoie che portano solo a inesorabili sconfitte e cocenti delusioni.
Una nuova forte sinistra, limpidamente alternativa al Pd di Renzi, non potrà sorgere dall’assemblaggio di pezzi sparsi di ceto politico, di formazioni minori e minoritarie che difendono anacronisticamente identità perdute, men che meno da gruppi parlamentari avvezzi a eterne negoziazioni, per reiterate ricollocazioni personali, sono film ormai già visti troppe volte.
Occorre il coraggio e la sapienza di un nuovo progetto politico che abbia solide basi culturali, un nuovo pensiero che fondi le sue ragioni in un’analisi critica della realtà, da un rapporto fecondo con il mondo del lavoro e con tutto ciò che nella società si muove autonomamente, ed è molto, nella nuova resistenza al liberismo e alla globalizzazione capitalista. Un progetto ispirato e guidato da una classe dirigente con cromosomi sani e adeguate capacità. Non è impossibile costruirlo, il recente referendum ha dimostrato che esiste ancora un forte legame di una parte consistente del popolo con i valori e gli ideali della Costituzione e non è poco. Non si commetta l’errore di affidarsi ad un ceto politico affetto da “poltronismo cronico” e da consunte pulsioni egemoniche.
(3 fine)

Le foto sono tratte da copertine e pagine degli almanacchi del PI del 1979 e del 1981

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