Definite liste e coalizioni, sistemato il puzzle delle candidature, e lasciate da parte recriminazioni per ciò che poteva essere e non è stato (se riparlerà, temo), ora la domanda è una sola.
Ora si apre una nuova fase, e dunque la domanda è: cosa si può fare per limitare i danni?
E’ in corso un’interessante discussione sulla possibilità, non tanto che la destra vinca le elezioni (dato oramai scontato), ma che essa possa davvero superare il tetto dei fatidici 2/3 dei seggi: anzi, alcuni politologi e sondaggisti tendono a rassicurare, giudicando irrealistica tale evenienza.
Tuttavia, un’indagine dell’Istituto Cattaneo, pubblicata il 9 agosto, non può evitare la crudezza dei dati: “Rispetto alla stima precedente”, vi si legge, ossia la stima fatta prima della rottura di Calenda, “il Centrodestra conquisterebbe 19 collegi uninominali in più alla Camera e 9 seggi in più al Senato, arrivando al 61% dei seggi complessivi nel primo caso e al 64% nel secondo”. Insomma, siamo lì, e la cosa non ci sembra poi tanto rassicurante.
Il problema non è solo quello delle possibili minacce alla Costituzione, ma di una distorsione profonda della rappresentanza, di un controllo assoluto del Parlamento da parte della destra, con possibili riflessi anche su alcuni passaggi istituzionali molto delicati, come l’elezione dei giudici della Corte Costituzionale.
D’altra parte, che serpeggi una grande paura (e forse ci si doveva pensare prima) lo si può dedurre proprio dallo scontro feroce che si è aperto nel Pd sulla scelta e sulla posizione dei candidati: le difficoltà (e usiamo un eufemismo) che si sono incontrate nel “piazzare” i vari candidati, tradiscono, per così dire, e lasciano ben trasparire, le reali valutazioni che circolano all’interno del partito, la consapevolezza cioè che di “sicuro” in giro c’era molto poco da spartire.
A questo punto, ed inevitabilmente, la competizione si sposta soprattutto sul proporzionale, dove vengono comunque assegnati i 5/8 dei seggi. E qui l’unico antidoto, per limitare la valanga della destra, è solo quello di votare, votare e far votare, combattere un astensionismo che da qualche tempo si caratterizza per la sua asimmetria, ovvero riguarda settori di volta in volta diversi dell’elettorato. Fenomeno che, in queste elezioni, potrebbe colpire pesantemente proprio a sinistra, per il messaggio di divisione, di sfiducia, di resa preventiva, che il mancato accordo elettorale ha trasmesso (laddove, al contrario, l’elettorato di destra, nelle ultime elezioni amministrative apparso pigro e sconcertato dalle divisioni nel proprio campo, è presumibile che ora sia fortemente mobilitato).
Non ci può essere dunque che un solo appello: si voti, per qualsivoglia tra le varie liste che oggi è possibile votare tra sinistra e centrosinistra, ma si voti, sperando che tutte riescano a superare la soglia del 3%. In particolare si deve sperare che il Movimento Cinque Stelle, innanzi tutto, riesca a recuperare una parte almeno di tutti quegli elettori che nel 2018 lo portarono al 33% dei voti.
Una metà di quegli elettori, che veniva da destra, è ritornata a destra già alle Europee del 2019; ma il resto, che veniva da sinistra, corre il rischio di rifugiarsi nell’astensione, come peraltro già spesso è avvenuto nelle più recenti elezioni regionali e comunali. E sono elettori che ben difficilmente, dal loro punto di vista, a torto o a ragione, possono trovare delle buone ragioni per tornare a votare per il Pd e il centrosinistra.
E i collegi uninominali, si dirà, non hanno più importanza? No, ovviamente, ma il problema molto serio è che sono pochi i casi in cui ci sono situazioni davvero incerte, e soprattutto queste non sono situazioni facilmente individuabili dalla gran parte degli elettori. Con questi nuovi mega-collegi, mai sperimentati prima, è davvero difficile (se non per una minoranza di elettori super-informati) sapere cos’è davvero “utile” votare.
Nonostante il gran battage che è stato fatto sui collegi “sicuri” o su quelli “contendibili”, la maggior parte degli elettori, per decidere il proprio voto, guarderà solo e semplicemente al simbolo del partito. A ciò si aggiunga il fatto che, come sappiamo, i vincoli posti dal Rosatellum (l’impossibilità del voto disgiunto) non lasciano certo molti margini di scelta all’elettore. Anche per questo, al di là di ogni altra considerazione, era necessario un accordo elettorale che neutralizzasse la grave “disproporzionalità” prodotta dal Rosatellum: stiamo parlando di un sistema elettorale che permette ad una coalizione che ottiene circa il 45% dei voti di conquistare almeno il 60%, se non oltre, dei seggi.
Insomma, non ci resta che…non piangere, per carità, ma coprirsi quanto più possibile da una violenta grandinata, per restare all’attualità: una grandine che, come quella vera di questa torrida estate, sbaglieremmo a considerare solo un caso fortuito della natura o il frutto di un destino cinico e baro.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 24 agosto 2022