L'industria sarda chiude: vicende di ordinaria normalità

18 Ottobre 2016 /

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Industrie in Sardegna
Industrie in Sardegna

di Marco Ligas
La stampa locale si è soffermata in questi giorni su due notizie riguardanti due aziende che operano in Sardegna. Le riassumo brevemente per poi fare alcune rapide considerazioni.
Lo scorso anno (è la prima notizia) è fallita la Keller Elettromeccanica di Villacidro, un’azienda specializzata nel settore ferroviario e tranviario. La decisione fu presa dalla Corte d’appello del tribunale di Cagliari. In realtà l’attività produttiva era ferma da diversi anni: l’azienda dichiarava una mancanza di liquidità. Quel provvedimento costò il posto di lavoro a 276 dipendenti più quelli dell’indotto. I tentativi di trovare acquirenti non andarono in porto e, dopo i vari passaggi procedurali in tribunale, ci fu l’ultimo atto che portò al fallimento.
Oggi, a distanza di un anno, per la Keller potrebbe aprirsi una nuova fase di rilancio produttivo. Lo ipotizzano, forse con troppo ottimismo, l’assessore regionale all’Industria, i sindacati territoriali di Cgil, Cisl e Uil e i rappresentanti delle Rsu.
L’incertezza però è d’obbligo, anche se un’azienda che opera nel settore sembra orientata a rilevare il sito industriale. Viene comunque sottolineato che la ripresa, se ci sarà, sarà graduale e i nuovi occupati saranno meno numerosi degli anni scorsi. Questa previsione è accompagnata dalla preoccupazione che la Keller, una volta rilevata dalla nuova azienda, possa essere smembrata e rivenduta per parti. In tal caso verrebbe compromessa ogni possibilità di riavvio produttivo.

In questi stessi giorni (e questa è la seconda notizia) a Macchiareddu l’azienda Vesuvius, specializzata nella produzione di refrattari isostatici, dà l’annuncio della chiusura della fabbrica entro il 31 dicembre, così 105 dipendenti rimarranno senza lavoro; anche in questo caso non bisogna dimenticare le ripercussioni nell’indotto. Sono già iniziate, come sempre in queste circostanze, le trattative che ormai conosciamo da diversi decenni: i dipendenti dell’azienda chiedono un incontro con la Regione, la Regione chiede un incontro all’azienda. L’obiettivo è evidente, si vuole evitare un altro ridimensionamento dei livelli occupativi.
I dirigenti della Vesuvius non sembrano disponibili al dialogo e non a caso, nel corso di un’assemblea dei lavoratori, hanno impedito al sindaco di Assemini di visitare lo stabilimento. Questo comportamento può essere il segnale di come la Vesuvius, che è una multinazionale, intenda programmare la sua strategia, chissà forse spostando all’estero le attività produttive o forse, praticando vecchi ricatti, chiedendo alle nostre istituzioni, regionali o statali, nuovi finanziamenti per promettere una realtà imprenditoriale che dia lavoro a qualche centinaia di persone.
Queste due vicende, come sottolineavo inizialmente, fanno parte della cronaca delle ultime settimane ma, se riflettiamo con attenzione, ci rendiamo conto che non introducono alcuna novità nella storia delle politiche industriali che hanno caratterizzato la Sardegna in questo dopoguerra, a partire dall’approvazione del Piano di Rinascita. Purtroppo sembrano vicende di ordinaria normalità.
La ripetitività di questi avvenimenti, e qui iniziano le mie brevi considerazioni, dovrebbe far riflettere tutti, soprattutto chi governa perché vengano individuate le risposte più funzionali alla crescita e allo sviluppo della nostra isola. Senza questo passaggio sarà difficile correggere le politiche attuali e le derive che hanno provocato.
Del passaggio se ne sente il bisogno soprattutto per quel che avviene nel settore privato dove chi organizza le attività produttive lo fa nella massima libertà che sempre più frequentemente sconfina nell’arbitrio, nel ricatto verso i lavoratori e nell’arroganza. Difficilmente incontra ostacoli da parte delle istituzioni pubbliche, e neppure è disposto ad accettare indicazioni, vincoli o regole su come operare.
È persino superfluo affermare che le aziende che praticano questi comportamenti, e sono sempre più numerose, producono effetti negativi in chi li subisce. Queste iniziative provocano forti preoccupazioni fra i lavoratori: c’è chi teme di perdere il lavoro in seguito alla riduzione del personale, chi ha paura della contrazione del salario a causa dell’eventuale passaggio ad imprese appaltatrici o, peggio ancora, altri temono la chiusura definitiva della fabbrica.
Questi fenomeni non sono irrilevanti, ripetuti con continuità non solo colpiscono i singoli lavoratori ma sono destinati a creare a livello sociale rabbia, rassegnazione e dipendenza nei confronti di chi comanda. Alla sfiducia nei confronti delle imprese (o del padronato) si aggiunge così quella verso la politica intesa, per chi la fa, come occasione per la tutela dei propri interessi esclusivi.
È questo coinvolgimento progressivo del pubblico nelle sfere del potere che accentua la frattura tra il paese che lavora e subisce le disuguaglianze e l’altra parte che invece ne raccoglie ingiustamente i privilegi. La crisi della democrazia e della partecipazione nascono da qui e sono dei segnali pericolosissimi.
È evidente come per correggere questa situazione siano necessari e decisivi comportamenti diversi da chi vuole realizzare il cambiamento. È intanto fondamentale una maggiore partecipazione dei lavoratori e di tutti i cittadini nella individuazione degli obiettivi da praticare. Ma è altrettanto importante che tutte le organizzazioni, siano esse politiche sindacali o culturali, se mosse dagli stessi intendimenti, si rendano più dinamiche e più propositive. L’immobilismo che a volte mostrano le rende complici della crisi. E la nostra isola non è immune da questi limiti.
Questo articolo è stato pubblicato dal Mamnifesto sardo il 16 ottobre 2016

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