di Alessandro Somma
Che la Brexit fosse un’opportunità per rimescolare le carte del potere politico ed economico in Europa, era facile intuirlo. Meno facile era prevedere che i primi segnali in questo senso sarebbero arrivati in fretta, innanzi tutto con la notizia di un ripensamento nel settore delle politiche europee volute in particolare dagli Stati Uniti, e per questo sponsorizzate da Londra. Si spiega così il tentativo di affossare definitivamente il progetto di Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, il famigerato Ttip, che pure era da tempo sgradito a pezzi importanti delle amministrazioni tedesca e francese. Contrariamente a quanto è stato scritto, non è ancora detta l’ultima parola [1], e tuttavia assistiamo finalmente a prese di posizioni impensabili solo qualche settimana fa, quando si doveva ancora evitare di irritare agli inglesi: quando occorreva offrire loro di tutto e di più per convincerli a restare.
Qualche timido segnale si registra anche sul fronte delle politiche economiche complessive, e a monte degli schieramenti formatisi a supporto dell’austerità ottusamente imposta dai tedeschi. Si tratta di segnali molto deboli e soprattutto non riconducibili a comportamenti univoci, ma comunque degni di essere registrati, se non altro per tenere viva la speranza di un cambio di rotta.
Gli inglesi, per molti aspetti più dei tedeschi, sono gli interpreti più intransigenti del neoliberalismo, ovvero dell’idea che l’ordine economico deve essere lasciato liberi di autoregolarsi, e che allo Stato si deve affidare il solo compito di prevenire o risolvere i fallimenti del mercato. Questa idea si coordina al meglio con il favore per le politiche austeritarie, anche e soprattutto in tempi di crisi: quando è più aspra la lotta tra operatori del mercato, e dunque ritenuto particolarmente efficace il meccanismo di espulsione di chi non regge il gioco della concorrenza. Di qui lo scontro con chi promuove invece un approccio alla crisi scandito da politiche fiscali e di bilancio di tipo keynesiano: ricavato dalla convinzione che i consumi aumentano creando occupazione, quindi sviluppando un piano di investimenti pubblici, magari evitando le grandi opere e privilegiando interventi diffusi sul territorio.
A Ventotene in portaerei
A urne inglesi pro Brexit ancora calde, i tedeschi avevano chiaramente mostrato preoccupazione per la possibilità che, con gli inglesi avviatisi verso l’uscita, i Paesi sudeuropei, o comunque contrari alle politiche austeritarie, avrebbero messo in minoranza i falchi di Berlino capeggiati da Wolfgang Schäuble e dai suoi proseliti. Primo fra tutti Jeroen Dijsselbloem, Presidente dell’Eurogruppo, l’organismo che raccoglie i Ministri delle finanze della zona Euro: il politico olandese che, per la sua solerzia nel sintonizzarsi con i desiderata di Schäuble, è stato felicemente etichettato con il nominativo di delivery boy (fattorino). Fin da subito, però, francesi e italiani si sono precipitati alla corte di Angela Merkel per rassicurarla circa la loro intenzione di dimostrarle fedeltà incondizionata, chiedendo al massimo di lasciar correre qualche frase sopra le righe pronunciata in patria per nascondere la loro incapacità di mettere seriamente in discussione il pensiero unico.
È paradigmatico, da questo punto di vista, il vertice tra Hollande, Merkel e Renzi tenutosi il 22 agosto a Ventotene (o meglio sulla portaerei Garibaldi all’ancora lì vicino). Un luogo carico di storia, giacché proprio su quell’isola del Tirreno furono mandati al confino dal regime fascista Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, autori del noto Manifesto “per un’Europa libera e unita”. E un vertice i cui risultati non hanno nulla a che spartire con quanto rappresenta quel Manifesto: un inno alla democrazia, celebrata come il motore dell’uguaglianza, principio per cui “le forze economiche non debbono dominare gli uomini” [2].
Non è dunque un caso se da Ventotene non è uscito nulla di concreto, e del resto i leader che vi hanno preso parte difficilmente possono riconoscersi in una strategia comune. Merkel è impegnata a mantenere l’Europa sotto scacco attraverso politiche economiche in danno ai Paesi più deboli e la blindatura dell’accordo con Erdogan: un accordo che obbliga i richiedenti asilo a varcare il Mediterraneo, consentendo così alla Germania di annullare la pressione sui suoi confini, e alla Cancelliera di continuare a rappresentarsi come la loro paladina. Hollande, invece, è più che altro interessato ad assecondare i desiderata xenofobi dell’elettorato di fede lepenista, e nei ritagli di tempo a proseguire nell’opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori [3]. Quanto a Renzi, il suo scopo era semplicemente farsi ammettere tra i “grandi”, apparire in fotografia con loro, contrastare l’immagine, restituitaci dalla realtà, di un’Italia che sul piano internazionale conta come il due di briscola quando l’asso è in tavola.
Certo, il premier italiano non ha mancato di usare toni più o meno trionfalistici per dire che ha convinto Merkel a concedere nuovi margini di flessibilità, ma le cose sono andate molto diversamente. In effetti è possibile che Renzi ottenga qualche nuovo irrisorio margine di spesa, ma questo non significa che l’Europa promuoverà investimenti pubblici indispensabili a creare buona occupazione, né tantomeno politiche fiscali e di bilancio volte a redistribuire ricchezza dall’alto verso il basso. Al contrario, la flessibilità verrà ottenuta secondo lo schema che oramai da troppo tempo caratterizza lo sviluppo della costruzione europea: quello per cui si concedono soldi in cambio delle riforme volute dai mercati.
La flessibilità pagata dai lavoratori
Proprio questo schema è stato utilizzato da Renzi per motivare l’approvazione del Jobs Act, una legge che per la propaganda di Palazzo Chigi avrebbe dovuto rilanciare l’occupazione, e che ha invece incrementato la precarizzazione e la svalutazione del lavoro: come ha ricordato Merkel proprio a Ventotene, solo se si fosse fatta questa riforma l’Europa avrebbe concesso nuovi margini di flessibilità all’Italia. Renzi, nuovamente con la benedizione tedesca, si prepara ora a riproporre lo stesso ricatto ai lavoratori per ottenere ulteriori margini di flessibilità: questi ultimi si concederanno solo avviando la revisione della contrattazione collettiva in tema di lavoro.
Come è noto, quest’ultima conosce un livello nazionale e vari livelli territoriali o aziendali. A livello nazionale il sindacato è di norma più forte, più capace di ottenere risultati in termini salariali e di diritti, motivo per cui si è per molto tempo stabilito che quei risultati non potevano essere intaccati a livello territoriale o aziendale. Il Governo Berlusconi aveva scardinato questo meccanismo con un provvedimento che consentiva alla contrattazione territoriale o aziendale di derogare in peggio a quanto previsto negli accordi nazionali, e persino dalla legge [4]. La norma era sostanzialmente rimasta lettera morta, ma a farla rivivere ci penserà ora il Governo Renzi con la riforma che il Premier vuole offrire all’Europa in cambio di qualche grammo di flessibilità. Si inizierà con la detassazione di quanto accordato in sede di contrattazione aziendale, ma sarà solo il primo passo per rilanciarla complessivamente, e soprattutto per affermarne la prevalenza sulla contrattazione nazionale.
Manipolati da Tsipras
Ma torniamo alla possibilità, sebbene solo lontana e indefinita, che l’austerità voluta dai tedeschi incontri finalmente un’opposizione capace di metterla in discussione come punto di riferimento per la politica economica europea. Abbiamo detto che vi sono alcuni segnali in questo senso in particolare perché il 9 settembre, ad Atene, si sono incontrati i leader dei sette Paesi dell’area mediterranea: Cipro (Anastasiadis), Francia (Hollande), Grecia (Tsipras), Italia (Renzi), Malta (Muscat), Portogallo (Costa) e Spagna (rappresentata dal Viceministro per gli affari europei).
Il segnale più importante è quello che emerge dal fatto di essersi riuniti, di essersi resi visibili, di aver alzato la testa in quanto rappresentanti del gruppo di Paesi europei cui soprattutto i tedeschi usano attribuire l’odioso appellativo di Club Med [5]. Giacché per il resto non sono uscite dichiarazione particolarmente belligeranti, a parte forse l’enunciazione del proposito, o la minaccia, di rivedersi presto a Lisbona. Il Portogallo è infatti l’altro Paese dell’Unione che, da sorvegliato speciale a causa del livello del suo debito e deficit, ha mostrato una relativa resistenza ai condizionamenti di Bruxelles, spintisi come è noto sino al tentativo di impedire la formazione dell’attuale esecutivo.
Si diceva della pacatezza delle dichiarazioni emerse dal vertice di Atene, che sono state però sufficienti a scatenare le reazioni rabbiose dei custodi dell’ortodossia austeritaria, a partire dal Capogruppo del Partito popolare europeo al Parlamento europeo: il tedesco Manfred Weber ha sobriamente affermato che i leader sudeuropei si lasciano tutti manipolare da Tsipras. Non potevano ovviamente mancare le minacce alla Grecia, una pratica cui Bruxelles non manca di ricorrere allorché Atene osa anche solo timidamente mettere in discussione le ricette delle Troika. Ci ha ovviamente pensato Dijsselbloem a formularle, affermando che è a rischio sospensione la nuova tranche di prestito attesa dalla Gracie proprio in questo periodo. Ma si è andati oltre: alcuni tra i falchi dell’Eurogruppo hanno addirittura ipotizzato una Grexit a termine, da disporre subito per un periodo di cinque anni.
In tutto questo non poteva mancare la dichiarazione di Schäuble, che se l’è presa con l’orientamento politico della maggior parte dei leader presenti al vertice organizzato da Tsipras: ha infatti detto che trae conferma la convinzione secondo cui, di norma, gli incontri tra socialisti non producono mai nulla di buono.
A ben vedere l’arcigno custode delle casse teutoniche non ha tutti i torti. In fin dei conti proprio i Partiti socialisti dei Paesi europei, a partire dalla fine degli anni novanta, hanno fornito un contributo fondamentale all’affermazione dei dogmi su cui si regge l’ideologia dell’austerità. In tempi diversi, ma convergendo verso un medesimo schema, sono stati il Partito laburista di Blair, i Socialdemocratici di Schröder, e più recentemente i Democratici fin dal loro esordio e i Socialisti di Hollande, ad affossare il compromesso keynesiano: ad aprire la strada al radicamento del neoliberalismo. E a creare le basi per il principale elemento di instabilità politica della società europea: averla lasciata in balìa del mercato, ovvero di un meccanismo di redistribuzione delle risorse dall’alto verso il basso che ha prodotto l’impoverimento e la concentrazione di ricchezza sotto gli occhi di tutti. E che costituisce un humus ideale per il diffondersi di guerre tra poveri, alla base della xenofobia e del populismo reazionario ovunque dilaganti in Europa, come hanno da ultimo documentato i risultati delle elezioni regionali tedesche in Meclemburgo-Pomerania.
Possiamo anche raccontarci che tutto questo è il prodotto di politiche migratorie sbagliate, e magari contrastarlo con la formula delle grandi coalizioni tra partiti progressisti e conservatori impegnati forse a ritoccare, ma non certo a mettere seriamente in discussione l’austerità e il neoliberalismo da cui essa trae fondamento. Così facendo, però, non interromperemo la corsa dell’Europa verso il baratro, con buona pace di chi pensa di fermarla o almeno rallentarla con qualche rimpatriata a Ventotene o ad Atene.
NOTE
- [1] Merkel sieht Ttip noch nicht als gescheitert an (9 settembre 2016).
- [2] A. Spinelli e E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene (1944), Pi-Me Editrice, Pavia 1991, pp. 21 e 34 ss.
- [3] Il cosiddetto Jobs Act alla francese è stato infine approvato: cfr. Legge 8 agosto 2016 n. 1088 relative au travail, à la modernisation du dialogue social et à la sécurisation des parcours professionnels.
- [4] Cfr. art. 8 Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138.
- [5] Ad es. Schäuble taktiert mit dem Club Med (29 giugno 2016).
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega online il 13 settembre 2016