Capire Genova ci aiuta a pensare al futuro della nostra politica

22 Luglio 2016 /

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di Christian Raimo
La pagina di Wikipedia dedicata ai fatti del G8 di Genova è impostata come il racconto di una battaglia. Sono indicati gli schieramenti contrapposti: da una parte l’arma dei carabinieri e la polizia di stato, dall’altra il Genova social forum. I rispettivi comandanti: Vincenzo Canterini e Francesco Colucci versus Vittorio Agnoletto e Luca Casarini. E le perdite – per gli attivisti: una vittima (Carlo Giuliani).
Che Wikipedia ricordi così quello che successe esattamente quindici anni fa, tra il 19 e il 21 luglio del 2001, non è singolare. La memoria di quell’evento epocale è la memoria di una battaglia, persa. E i nomi che la puntellano sono quelli del ricordo di un massacro: Diaz, Bolzaneto, piazza Alimonda. Per molti basta semplicemente evocarli per sentire l’odore del gas lacrimogeno, il rumore angosciante degli elicotteri.
Nonostante il grande racconto collettivo che si è fatto di Genova 2001, quello che accadde prima, durante e dopo il G8 è ancora il grande rimosso della politica italiana. Da un punto di vista giudiziario la condanna delle violenze feroci delle forze dell’ordine è stata del tutto insufficiente, con una minimizzazione delle colpe individuali e una schifosa indulgenza su quella che Amnesty international definì “la più grave violazione dei diritti umani occorsa in una democrazia occidentale dal dopoguerra”: la notizia di dieci giorni fa della multa di 47 euro comminata al carabiniere Massimo Nucera, che aveva dichiarato al tempo un falso tentato omicidio da parte di un manifestante (fingendo di essere stato accoltellato, aveva mostrato il suo giubbotto lacerato), è il simbolo della sostanziale autoassoluzione dei corpi di polizia dello stato.

Ci sono le sentenze di condanna delle violenze contro i manifestanti (ed è importante leggerle), ci sono i pronunciamenti della Corte europea dei diritti umani che nel 2015 ha dichiarato che durante l’irruzione nella scuola Diaz fu violato l’articolo 3 sul “divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti”. Tuttavia di fatto i vertici politici, che non solo consentirono ma promossero quella “macelleria messicana”, non ci hanno perso la faccia ma hanno lucrato consenso e spesso hanno fatto carriera: la radice antidemocratica del berlusconismo ha tratto linfa vitale da quel sangue.
Anzi, diciamo di più, la Diaz e soprattutto Bolzaneto hanno prefigurato e le violenze della polizia italiana nei quindici anni successivi. E la domanda seria da porsi è se la mancanza di un reato di tortura nella giurisdizione italiana rispetto ai fatti di Bolzaneto non sia stata un’attenuante preventiva, un lasciapassare, per quei poliziotti che avrebbero pestato a morte Federico Aldrovandi o Stefano Cucchi, se non si siano sentiti autorizzati da un clima culturale che ha continuato e continua a allignare nei corpi di polizia. E non si parla solo di violenze, ma di inquinamento e di falsificazione delle prove, di false dichiarazioni, di falsi verbali, in un contesto giudiziario in cui l’infallibilità dei pubblici ufficiali è sempre stata privilegiata rispetto alla parola dei cittadini.
In questo senso Genova 2001 ha dimostrato due cose. Primo, la subalternità strutturale della politica rispetto al potere arbitrario delle forze dell’ordine. Diciamola meglio, la vischiosità di una rete di micropotere fatto di connivenze, coperture e opacità. Su questo si possono leggere Governare con la paura di Enrico Deaglio, Beppe Cremagnani e Mario Portanova, o L’eclisse della democrazia di Lorenzo Guadagnucci con Vittorio Agnoletto.
Una subalternità e una opacità confermate giusto il 19 luglio da un senato che decide di rimandare sine die la discussione sul reato di tortura, con il ministro dell’interno Angelino Alfano che nelle sue dichiarazioni ufficiali ancora mescola vilmente i piani, difendendo l’onore della polizia italiana (o meglio, come diceva Luigi Manconi in una nota, “dei suoi segmenti più antidemocratici e arretrati”) e non capendo nulla del merito sacrosanto della legge.
Secondo, l’idea che questo potere violento, arbitrario, sregolato, abbia – per una consistente parte della popolazione italiana – non soltanto una sua ragion d’essere in un’immaturità democratica, ma nella legittimità di un fascismo prepolitico, informale. Il potere che permette a un sindacato di polizia – il Coisp – di organizzare un convegno come questo (la segnalazione è di leonardo.blogspot).
O che, di nuovo il 19 luglio, si è manifestato all’opera, vivo, robusto, ignobile, nell’organizzare una sassaiola virtuale sulla pagina Facebook di Zerocalcare: il fumettista aveva scritto che avrebbe partecipato alla commemorazione della morte di Carlo Giuliani. Prima si è ritrovato la sua pagina subissata di commenti tipo: “Vergognoso ricordare un imbecille, delinquente che ha tentato di uccidere dei carabinieri” o “Mi piace ricordarlo con un buco in testa e steso sull’asfalto”. E poi ha visto direttamente l’account bloccato da parte di Facebook.
Zerocalcare ha commentato così la vicenda:

Ero indeciso se scrivere queste due righe perché fino a stamattina pensavo vabbe’, Genova è una partita chiusa. Sclerotizzata, immutabile, ormai esiste un blocco sociale in questo paese che pensa che era giusto sparare in faccia a Carlo Giuliani, e quella roba ormai non si può scalfire. Non vale la pena dibatterne ancora. Teniamoci la nostra memoria, coltiviamola, problematizziamola, e amen. Schieriamoci sulle cose dell’oggi checcazzo, sulle cose che ancora sono vive e ci attraversano e su cui possiamo ancora orientare il dibattito pubblico e l’opinione, quelle su cui non abbiamo ancora perso. Non sui match finiti.
E invece evidentemente Genova non è finita (c’è chi lo dice da tempo, lo dico pure io ma ammetto di averlo usato più come uno slogan che altro), non solo – ma basterebbe quello – perché ci sta ancora una persona in galera a 15 anni di distanza dai fatti (e altre sottoposte a misure e restrizioni) mentre altri venivano promossi e facevano carriera, ma perché è la controparte e pezzi dei suoi apparati che continuano a fare una guerra accanita e che sulla narrazione di quelle giornate non vogliono mollare di un centimetro.

Per l’ennesima volta, la responsabilità di costruire una contronarrazione è stata a carico di chi ha subìto questo fascismo informale. Negli anni questo impegno è stato forse più faticoso che conservare la memoria del massacro. E ha gravato quasi tutto sui movimenti. Non soltanto perché, tanto per fare un esempio, non si è voluta mai creare una commissione d’inchiesta su Genova (quelle nominate subito dopo fecero emergere quasi soltanto le capacità di mentire di Gianni Di Gennaro e di Arnaldo La Barbera), ma perché evidentemente esiste ed è forte nell’opinione pubblica del paese una prospettiva per cui la macelleria messicana e la più grande violazione dei diritti umani del dopoguerra erano tutto sommato giustificate.
Per fortuna dal 22 luglio 2001 in poi c’è stato un racconto capace di rovesciare questa visione. Non si è trattato semplicemente del ruolo importantissimo dei primi mezzi d’informazione dal basso – l’esperimento di indymedia, anche quello seminale – ma dell’emergere, nel tempo, di una narrazione sempre di più collettiva, generazionale e transgenerazionale: racconti, romanzi, fumetti, film (popolari come Diaz di Daniele Vicari e più sotterranei come Black bloc di Carlo A. Bachschmidt), ma anche decine di spettacoli teatrali (uno per tutti Genova 01 di Fausto Paravidino), centinaia di documentari, una scrittura diffusa: Genova doveva essere un buco e invece è stata ed è dappertutto.
La sintesi della vicenda di piazza Alimonda fatta da Wu Ming (vale la pena di rileggerla, e rivedere le immagini) è paradigmatica di una modalità di approccio all’informazione e al racconto che si è strutturata già da quei giorni. Quello che ora serve è il precipitare di questa memoria diffusa. Alla luce dei due episodi del 19 luglio, che sono la spia di un clima ancora appestato, è stata una scelta sapiente ma anche una fortuna che l’ultima edizione del festival di storia organizzato a Roma dal Nuovo Cinema Palazzo in collaborazione con il dipartimento di antropologia della Sapienza sia stata dedicata a Genova 2001.
Fare storia del presente è complicato, ma per tre giorni si è avuta la netta sensazione di quello che nell’ultima giornata del festival ha affermato Sandro Portelli a proposito della percezione del proprio tempo. Ci sono eventi che segnano dei passaggi cruciali nelle coscienze molto di più che nei manuali di storia: occorre ripartire da quei vissuti.
Un bellissimo saggio di Portelli, “Generations at Genova” (pubblicato nella raccolta Storie orali) mostrava come fosse possibile fare storia non sulle dichiarazioni ufficiali, ma dalla consapevolezza politica di chi quei giorni era dentro le cose. Attraverso una serie d’interviste emergeva come Genova sia stata per molti un passaggio di testimone o ancora meglio un ponte tra l’impegno politico del novecento, ancora strutturato in partiti e sindacati, e quello – molto più complicato – di una lotta in un campo senza confini che si sarebbe consumata nel millennio appena cominciato.
Genova è stato un momento in cui gli adulti hanno seguito le tracce dei più giovani. Per una parte almeno della generazione degli anni sessanta e settanta, l’impegno dei loro figli e la violenza che gli era stata scatenata contro sono stati un incentivo per riprendere una pratica politica in prima persona. Come ha detto Haidi Gaggio, la madre di Carlo Giuliani: “È due anni che giro l’Italia ed è due anni che continuo a incontrare persone che mi dicono, come in realtà ho fatto io: mi ero ritirato a vita privata e con Genova ho scoperto che non ci si doveva ritirare a vita privata.”
L’impostazione metodologica di Portelli è quella che ha fatto sì che per un anno al Nuovo Cinema Palazzo, durante un seminario dedicato ai movimenti, si siano continuate a raccogliere testimonianze e analisi su quel tempo. Questo ha dato vita a una specie di scrittura collettiva e ha restituito, oltre alle sensibilità legate a un’umanità che in quel luglio 2001 fece delle scelte cruciali rispetto alla propria vita (capendo per esempio che non era possibile fare un’attività di volontariato a cui non corrispondesse una militanza politica, o decidendo di continuare a fare l’attivista, o scegliendo di smettere, o cominciare), quello che potremmo definire un titolo diverso per Genova 2001: non la descrizione di una battaglia, ma quella di un grandissimo momento di elaborazione politica.
Nelle proteste dei cosiddetti noglobal c’era l’accumulazione di un’esperienza internazionale e di lotte e di analisi (dallo zapatismo al forum di Porto Alegre e a Seattle). C’era, in nuce, la coscienza della catastrofe che avrebbe coinvolto gli stati nazionali e del disastro a cui avrebbero portato le politiche neoliberiste “globali” (quelle della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale). C’erano ipotesi che forse solo oggi cominciano a essere prioritarie per i governi (si vedano i documenti sull’ambiente o le proposte di controllo delle banche che faceva Attac).
E soprattutto c’era già una pratica che rispondeva alla crisi della democrazia e dei corpi intermedi con l’orgoglio della presa di parola e una diversa mentalità culturale applicata anche all’organizzazione politica: senza Genova non ci sarebbero stati la mobilitazione per il referendum sull’acqua o la sensibilizzazione per le violenze di stato (vedi il lavoro delle associazioni A buon diritto o Acad), ma non ci sarebbero stati nemmeno gli indignados, Occupy, Tsipras o Podemos. E soprattutto non ci sarebbe la politica che vedremo nei prossimi anni quando per contrastare i nuovi fascismi nazionalisti non basteranno i vecchi partiti, ma sarà necessario un movimento internazionalista, pacifista, ugualitario. Un altro mondo non solo possibile, ma praticabile.
(Grazie a Federica Graziani per le informazioni che mi ha dato)
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 21 luglio 2016

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