Sgomberi: a Bologna si gioca la finale di partita

16 Luglio 2016 /

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di Mauro Boarelli
1. Ci sono tre immagini che raccontano meglio di tante parole i mutamenti di Bologna e del suo governo locale, tre fotografie scattate a pochi mesi dalle elezioni amministrative. Nella prima c’è un bambino di tre o quattro anni alla guida di una macchinina gialla sotto il portico di una strada del centro storico, la testa rivolta all’indietro a guardare, a pochi metri di distanza, un gruppo di poliziotti in tenuta antisommossa.
È stata scattata durante uno sgombero, uno dei tanti che negli ultimi mesi hanno messo definitivamente in soffitta il mito già sbiadito della città accogliente e solidale e smantellato luoghi nei quali avevano cercato una soluzione abitativa famiglie di immigrati e famiglie italiane che non possono pagare gli esosi affitti imposti dal mercato immobiliare.
La seconda immagine è quella di un portone chiuso. Non è un portone qualsiasi: è quello del palazzo comunale in Piazza Maggiore. È un’immagine ricorrente, perché quel portone – spesso presidiato dalla polizia – si è chiuso tante volte in faccia a comitati di cittadini, occupanti sgombrati, lavoratori (compresi quelli dello stesso Comune) che volevano far sentire la propria voce durante i lavori del Consiglio comunale.
L’ultima foto è stata scattata ancora una volta durante uno sgombero, quello che nell’ottobre scorso è andato in scena nel palazzo ex Telecom in disuso da anni mettendo fine brutalmente a un’interessante esperienza di autogestione che aveva coinvolto quasi trecento persone (ne hanno scritto Luca Lambertini e Lorenzo Betti su “Gli asini”, n. 31/2016). In questo caso la foto-simbolo non riguarda l’azione della polizia, e non perché manchino immagini dure e drammatiche.

La foto emblematica è quella di una donna che segue attentamente le operazioni dalla finestra di un ufficio ai piani altri del nuovo palazzo comunale, che per ironia della sorte è proprio di fronte all’edificio occupato. Quella donna è l’assessore ai servizi sociali. Non è in strada, dove si sta svolgendo una scena di grande violenza e del tutto inedita nella storia della città; non è accanto agli assistenti sociali del Comune, che stanno lavorando in condizioni difficilissime; non è vicina a quelli che sono a tutti gli effetti suoi concittadini, sbattuti fuori senza neanche il tempo di recuperare gli effetti personali. Sta guardando le cose dall’alto, dietro un vetro.
Tre fotografie che raccontano una città in cui la politica ha ceduto il passo ad altri poteri e si è asserragliata nel palazzo brandendo la retorica della legalità come difesa per la propria inettitudine. È questo lo scenario del tutto inedito nel quale si sono svolte le elezioni di giugno.
2. Il sindaco uscente – Virginio Merola – è stato riconfermato, ma con grande affanno. Al primo turno si è fermato a poco più del 39%, e al secondo ha rischiato grosso. Il suo partito (Pd) è al minimo storico, al di sotto dei risultati del 1999, quando i Ds e le formazioni centriste loro alleate (poi confluite nel partito unico) regalarono il governo della città alla destra. Il voto nei quartieri “rossi” è evaporato. Se prendiamo come riferimento le elezioni vinte nel 2004 da Sergio Cofferati, il deus ex machina invocato per riconquistare la città simbolo della sinistra italiana, gli elettori residenti nelle zone di tradizionale insediamento prima del Pci e poi dei partiti che ne hanno raccolto l’eredità hanno voltato le spalle al partito con percentuali che vanno dal 30 al 40 per cento.
Secondo uno studio dell’Istituto Cattaneo, che ha incrociato i risultati con i dati socio-demografici disaggregati a livello di singola sezione elettorale, il Pd ha perso maggiormente nelle zone in cui il reddito e l’età media sono più bassi e più alta la presenza di immigrati.
Il dato sui giovani è legato probabilmente a un duplice aspetto. Il primo misura la distanza culturale rispetto a un partito che – pur non avendo alcuna parentela con quelli da cui è sorto – continua ad essere strutturato secondo lo stesso modello e non ha mai cercato nuove forme di organizzazione. Il secondo rinvia invece alla precarietà delle condizioni di lavoro, che ha messo a rischio la coesione sociale e contribuito ad aprire le porte a sentimenti xenofobi rispetto ai quali le amministrazioni che si sono susseguite nel tempo non hanno contrapposto concrete politiche di dialogo e convivenza. I due indicatori si intrecciano con il terzo, quello che ha un’incidenza maggiore: la correlazione tra basso reddito e perdita consistente dei voti segna in modo inequivocabile la separazione tra il partito e la sua base sociale storica.
Il disastro era annunciato, ma i sintomi andavano al di là della capacità di comprensione di un ceto politico autoreferenziale e completamente impermeabile rispetto ai processi sociali che avrebbe dovuto interpretare e governare. La disgregazione dell’insediamento territoriale del partito si è accompagnata al depauperamento della conoscenza incorporata nel sistema dei servizi pubblici.
Educatori dell’asilo, insegnanti della scuola dell’infanzia, assistenti sociali, educatori formano una estesa rete di competenze a contatto quotidiano con le trasformazioni del tessuto della città e con i suoi soggetti in carne e ossa. L’amministrazione comunale ha lentamente trasformato queste figure in puri e semplici erogatori di servizi, meri esecutori di direttive sempre più confuse, contraddittorie e prive di un quadro di riferimento. Insomma: da molti anni manca la politica, e questa non è una novità né una caratteristica peculiare della città.
A Bologna, però, la dismissione è più evidente, ed è l’esito finale di un processo che – come ha evidenziato tempo fa Franco Farinelli in un acuto articolo dal titolo emblematico (Bologna che ha perso la memoria, “il manifesto” 13 marzo 2014) – risale almeno alla frattura del ‘77, quando i tragici fatti di marzo segnarono uno spartiacque rispetto a un’epoca precedente nella quale gli amministratori “ponevano […] la massima cura nel tenere insieme l’urbs e la civitas, lo sviluppo e la manutenzione della città materiale con quello della coscienza civica intesa come riconoscimento di un unico, comune sentire, oltre che di comuni concreti bisogni”.
Quella dissociazione e la rimozione che ne è seguita sono alla base di ciò che oggi i risultati elettorali si limitano a ratificare con un ritardo legato alla vischiosità dei processi storici: della città è rimasta solo la forma materiale, i cittadini sono un soggetto sfocato sullo sfondo, e questa separazione è la causa del degrado della prima e della paura dei secondi. Smarrita in questa perdita di senso, l’amministrazione comunale ha degradato se stessa al ruolo di esecutrice diligente e meticolosa di ingenti tagli alle risorse pubbliche decisi altrove e non si è mai opposta a questa espropriazione di mezzi e competenze che ha finito per rendere la frattura ancora più acuta.
3. Di fronte a questo, cosa si è mosso alla sinistra del Pd? Un tentativo è stato fatto, ha preso il nome di Coalizione civica e nelle intenzioni iniziali (sulla base dell’idea originaria lanciata da Mauro Zani, ex dirigente Pci-Pds-Ds) avrebbe dovuto aggregare il disperso e deluso popolo di sinistra abbandonando le appartenenze identitarie per evitare una decotta aggregazione di piccoli partiti.
Una buona idea, ma un’idea astratta. Troppe cose sono state date per scontate, e in particolare non è stata fatta chiarezza sul significato politico delle due parole scelte per nominare il progetto. Questo avrebbe consentito di fugare confusioni e ambiguità che hanno condizionato in modo negativo la fase successiva. Come si fa – ad esempio – a mettere insieme non solo i cittadini ma anche forze organizzate? Anziché cercare risposte a questo interrogativo cruciale, si è preferito sostituirlo con un generico appello al buon senso dando origine a un’omissione densa di conseguenze.
Non è stata posta alcuna cura nella gestione del tempo, lasciando scorrere lunghi mesi in una sostanziale inerzia che ha immediatamente sopito la spinta iniziale e disperso molte risorse. Infine, si è scelto paradossalmente di intavolare trattative segrete con tutti i soggetti politici organizzati che avevano manifestato interesse per il progetto, contraddicendo in modo plateale gli assunti iniziali e pretendendo di praticare una politica “nuova” attraverso strumenti antichi e ben collaudati, quelli che ciascun politico navigato pretende di padroneggiare meglio degli altri ma che lasciano inevitabilmente qualcuno sconfitto sul campo.
Da qui – tra le altre cose – le scelta di uscire dall’impasse sull’individuazione del candidato sindaco attraverso le vituperate primarie che hanno radicalizzato la contrapposizione tra le varie anime, con drammatizzazione del finale caratterizzato dal ritiro polemico di alcuni dei fondatori.
Il risultato raggiunto dalla Coalizione e dal suo candidato – il giuslavorista Federico Martelloni, proveniente da Sel – deve essere valutato a partire da questo contesto. Gli errori iniziali, la competizione interna, il poco tempo a disposizione, la difficoltà a costruire un discorso pubblico radicalmente alternativo hanno sicuramente ridotto le potenzialità e influito negativamente sul risultato. Ma, per gli stessi motivi, il 7% realizzato non è un dato trascurabile.
È nettamente superiore a esperimenti tentati in altre grandi città sotto il segno della nascente e inutile Sinistra italiana, testimonia un’esigenza diffusa, una domanda che viene posta e fatica a trovare interlocutori. E va sottolineato che il risultato raddoppia nel quartiere del centro storico (tradizionalmente di destra) in cui è insediato Làbas, un centro sociale occupato che è stato parte attiva della Coalizione, a dimostrazione che le pratiche sociali più intelligenti permettono di spargere semi fruttuosi. Insomma, una creatura gracile che potrebbe rapidamente deperire oppure crescere e irrobustirsi.
A determinare l’esito sarà anche la capacità della coalizione di comprendere che l’unica strada percorribile è quella federalista, perché solo una struttura di questo genere – pluralista, policentrica, anti-autoritaria – può disinnescare le potenzialità distruttive della competizione e della lotta per la supremazia incorporate nei modelli identitari.
4. Il Movimento 5 stelle si è rivelato un competitore poco insidioso. A Bologna il movimento ha ricevuto il battesimo con i primi bagni di folla di Beppe Grillo, qui ha avuto le prime importanti affermazioni elettorali e qui sono caduti i primi rinnegati. Le tensioni causate dalle espulsioni, il basso profilo dell’opposizione nel mandato amministrativo appena concluso e la scelta di un candidato sindaco debole e noto soprattutto per essere fedele esecutore delle direttive emanate dalla Casaleggio Associati (Massimo Bugani) hanno portato a un modesto 16 per cento.
E così al ballottaggio è arrivata la candidata della destra, la leghista Lucia Borgonzoni (22,7%). Da queste parti la Lega ha avuto sempre vita stentata fino a che nel 2011 ha improvvisamente triplicato i propri voti. Alle ultime elezioni è riuscita per la seconda volta ad imporre la propria leadership a un centrodestra recalcitrante ma ormai allo sbando, ed ha costretto il sindaco uscente a fare appello alla difesa dei valori civili della città per affrontare le incertezze del secondo turno. Ma l’impressione è che a determinare il risultato finale siano stati soprattutto i residui anticorpi che la città conserva.
La destra ha portato a casa un risultato non indifferente, se consideriamo che tra il primo e il secondo turno ha guadagnato 30.000 voti, oltre il doppio di quelli che il sindaco uscente è riuscito ad aggiungere al suo (magro) gruzzolo di partenza. È chiaro che il meccanismo del ballottaggio comporta una polarizzazione, ma la destra sembra maggiormente in grado – al momento del bisogno – di compattare il proprio elettorato andandolo a recuperare ovunque sia provvisoriamente disperso, compreso il Movimento 5 stelle che – stando alle analisi dei flussi elettorali – ha ceduto alla candidata leghista oltre il 40% del proprio elettorato. I 14.000 voti che – alla fine – separano i due schieramenti misurano una distanza esigua che rende incerto il futuro.
5. L’erosione progressiva dell’elettorato del Pd in quella che fu la sua fortezza è un fenomeno ormai strutturale, così come strutturali (e coerenti con l’andamento nazionale) sono l’estrema mobilità dell’elettorato e la drastica diminuzione dell’affluenza, che alle comunali si è fermata sotto la soglia del 60%. Proprio a Bologna, alle elezioni regionali del 2014, l’affluenza toccò un record negativo scendendo sotto il 40%. Quel risultato avrebbe dovuto scuotere le coscienze del ceto politico, se non fossero narcotizzate al punto da non percepire il pericolo (o al punto da esserne segretamente felici).
I dati elettorali bolognesi confermano le linee di frattura ormai evidenti sul piano nazionale ma anche su quello europeo, come testimoniato anche dal referendum britannico sull’uscita dall’UE. Si tratta di fratture che oppongono le generazioni, i centri e le periferie, i ceti medi e i ceti popolari. Per ricomporre queste fratture (che la politica renziana alimenta in modo irresponsabile) non servono la retorica sulle periferie o quella del “sindaco di strada” di cui il sindaco confermato si va riempiendo la bocca ogni giorno dopo lo scampato pericolo. Bisognerebbe innanzitutto guardare l’album fotografico che ha raccontato la città negli ultimi mesi, e vergognar.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online il 13 luglio 2016

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