Castellina: "Europa per fare che?"

28 Giugno 2016 /

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di Susanna Boehme-Kuby
Luciana Castellina ha pubblicato la sua dettagliata ricostruzione storica delle origini dell’attuale Unione Europea, redatta quasi dieci anni fà per il Cinquantenario della Comunità Europea nel 2007. La prima parte del volume riguarda l’attualità, ovvero gli anni 2007-2015, quel «Tempo dell’emergenza», che ha ridotto l’arte del «governo alla governance» anche a livello nazionale, e la terza parte passa in rassegna le posizioni delle varie Sinistre in Europa, dai Federalisti ai comunisti, dai belgi ai portoghesi. Un volume utilissimo per orientarsi in questa fase di crescente disaffezione e perfino di disgregazione dell’idea europea, in cui non pochi si chiedono se «vale ancora la pena di puntare sull’Europa». Anche se l’autrice risponde infine in modo affermativo a questa domanda, direi faute de mieux, essa ci dà un quadro allarmante della situazione complessiva.
L’autrice comincia col constatare che questa Europa è stata narrata finora «con una tale agiografica esaltazione da coprire con un velo pietoso la sua vera storia». Rivela poi che – in oltre mezzo secolo – non solo «non si è data realizzazione ai sogni europeisti di Ventotene», ma che questi sogni non hanno affatto influenzato la genesi del progetto europeo, perché il contesto storico del passaggio dalla fine della guerra nel 1945 allo spiegarsi della guerra fredda (dal 1947) serbava ben altri interessi miranti alla piena ripresa capitalista, il che ha «rapidamente sotterrato il sogno resistenziale di un’Europa sociale». La costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, 1951), inizialmente rinchiusa nelle mani di pochi tecnocrati di USA, Francia e Germania, fu la premessa per poter ricuperare il potenziale industriale e bellico (con riabilitazione dei Krupp e Thyssen) della nuova Repubblica Federale tedesca che ebbe una prima e preziosa rilegittimazione, pur senza aver firmato nessun Trattato di pace.

Dall’inizio dunque l’Europa divenne tale «al riparo dai sentimenti popolari, e persino dalle assemblee rappresentative democraticamente elette», altro che incoronazione delle speranze in un continente finalmente pacificato serbate dai suoi popoli esausti dopo ben due macelli mondiali con quasi 100 milioni di morti.
Per questo quasi tutte le sinistre europee, socialiste e comuniste, si opposero allora all’impostazione liberista già dei primi Trattati. I laburisti inglesi per esempio, temevano già allora di perdere con l’integrazione europea parte del loro welfare conquistato. Motivo decisivo anche della resistenza opposta all’integrazione, anni dopo, dalle socialdemocrazie nordiche.
«La vera levatrice dell’integrazione europea», il Piano Marshall (ERP), fu inizialmente ancora improntato al New Deal per osteggiare gli orientamenti socialisteggianti di parecchi paesi europei a guerra finita. E l’Europa federalista alla quale miravano John Foster Dulles (successivamente Segretario di Stato) e il fratello Allan Dulles (a capo dell’OSS, poi CIA) era pensata dagli USA fin dall’inizio come uno strumento per il roll back antisovietico e anticomunista e per un rapido riarmo in Europa.
(A questo punto si dovrebbe portare alla luce anche l’apporto decisivo degli esperti tedeschi alla riorganizzazione economica del continente con la Germania al centro, elaborato già tra le due guerre (Paneuropa) e poi, ancora durante la barbarie bellica del “Generalplan Ost”, come modello di una futura Europäische Wirtschaftsgemeinschaft (Comunita economica europea – CEE), progettata dai funzionari della Deutsche Bank già nel 1942. Apporto che ha avuto nuova linfa con l’unificazione tedesca del 1990 come premessa dell’auspicata “Kerneuropa” tedesca alla Schäuble).
La motivazione militare divenne esplicita con il – poi fallito – progetto della CED, Comunità europea di difesa, nel 1950, nel contesto della guerra di Corea, (progetto che ritrova oggi nuovo sostegno soprattutto in Germania). Anche il successivo progetto nucleare Euratom (del 1957) è fallito per le sue contraddizioni tra uso civile e militare e le diffidenze, i timori e le gelosie che hanno diviso l’Europa più che unirla.
Quando la CEE vide la luce a Roma, nel marzo del 1957, non se ne è accorto quasi nessuno, ricorda Castellina, e nemmeno la sinistra ha poi approfondito l’analisi di quel che venne in seguito percepito come «mero prolungamento del potere dei monopoli» che dal controllo dei mercati nazionali si sarebbero presto estesi al mercato europeo e mondiale. Mentre i singoli governi in Europa consolidavano a loro volta lo Stato e le economie nazionali senza politiche efficaci rivolte ad una vera integrazione fra loro. E l’Italia, il solo paese mediterraneo ammesso fra i primi sei, venne considerato un caso speciale non solo per il suo storico problema meridionale, «ma per via della sua recente Costituzione, considerata dai tedeschi e dagli olandesi pericolosamente non omogenea ai principi liberisti cui la costruenda Comunità Europea intende ispirarsi»: cosi l’autrice cita il ricordo di Leopoldo Elia in un convegno del 1986.
E furono tedeschi democristiani sia Walter Hallstein, primo presidente della CEE, che il commissario alla concorrenza, Van der Groeber, che scrisse: «La Comunità non può intervenire (…) non può alterare il gioco delle forze di mercato». Eccezion fatta per la politica agricola, dal 1962 in poi, non ci fu nessuno spazio per comuni politiche sociali – il mercato del lavoro, i salari e i redditi pro capite restavano diversissimi con rilevante dumping sociale e polarizzazione crescente.
Con il Trattato di Maastricht dei primi anni 90, si capovolge di fatto il principio dell’obiettivo primario di quasi tutte le Costituzioni postbelliche: di realizzare i diritti sociali dei cittadini. Questi vengono invece sottomessi all’assolutismo del mercato. Si tratta dunque per Castellina nel mezzo secolo di passaggio dalla CEE all’UE odierna di «un susseguirsi di involuzioni, un progressivo e sempre più accelerato distacco dal ‘modello sociale’ pur proprio ad ambedue le tradizioni europee, quella scocialista e quella cristiana; e un avvicinamento al modello americano». Anziché costituire un baluardo nei confronti della globalizzazione, l’Europa unita l’ha persino accelerata o forse anticipata: L’economia «viene tagliata fuori dalla sfera delle decisioni politiche» – non era forse questo l’obiettivo della famosa Trilateral Commission, che raccomandò nel documento Crisis of Democracy (1973) di «ridurre la ormai troppa domanda di democrazia»?
Ma la retorica dominante impedisce anche di tracciare un realistico bilancio dell’esperienza europea, si rammarica Castellina. Oltre ad aver pacificato Francia e Germania e contenuto il comunismo, che figura tra i meriti, la sua performance economica appare assai mediocre. Da un analisi comparata su 16 paesi capitalistici avanzati risulta un’aumento medio pro capite annuo del 2,8% dei paesi membri (tra 1951 e 1989), del 20% inferiore rispetto a quello de paesi non-membri (+ 3,5%), mentre la disoccupazione sarebbe stata in media più alta del 4,4%, già dagli anni’70. Ed è dalla fine degli anni’90 che anche gli investimenti produttivi nell’UE sono caduti di più per via di un monetarismo e una deregulation più rigorosi che altrove, avallati da governi socialdemocratici e socialcristiani.
Che fare dunque? Rilanciare una nuova Costituzione senza Stato europeo? Inventare altre soluzioni normative? Per quale Europa? L’aggravarsi della crisi economica ha reso più gravi tutti i problemi preesistenti e postula con forza maggiore una modifica radicale della CEE, ovvero «un massiccio trasferimento di risorse e un intervento pubblico pianificatore che condizioni il gioco selvaggio del mercato». «Europa per fare che?» ci chiede Luciana Castellina.
Luciana Castellina, Manuale antiretorico dell’Unione europea – da Dove viene (e dove va) quest’Europa (manifestolibri, Roma 2016, 172 pp., 18 €)
Questo articolo è stato pubblicato su Eddyburg.it il 16 giugno 2016

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