di Andrea Guccio Parolin
“La Somalia vive una situazione di guerra da ormai 25 anni, e anche se oggi non se ne parla praticamente più, i conflitti non si arrestano, e la popolazione è costretta a vivere senza un governo e senza diritti. Per un bambino la guerra è la normalità, quando ci cresci in mezzo, le opzioni che hai non sono molte: o accetti di prendere in mano un fucile e ti arruoli o vieni ucciso. Altrimenti tenti la fortuna e scappi, provando a raggiungere l’europa”. Abdi è un ragazzo somalo di 25 anni ed è arrivato in Italia nel 2007. Con queste parole comincia il racconto del lungo viaggio per arrivare in Europa.
“Sono nato a Mogadiscio, e ho sempre vissuto in mezzo alla guerra. Non puoi non averci a che fare, ti tocca sempre, anche se tu la guerra non la fai. Mi ricordo che una volta mentre giocavamo in mezzo alla strada, sono arrivati due gruppi e hanno cominciano a spararsi. Noi eravamo lì, in mezzo, e lì è facile morire. Ho perso mio papà quando ero molto piccolo, circa sei anni, non ricordo bene, e mia sorella”.
A 12 anni decide di fuggire: “Non hai scelta, o ti arruoli o scappi. Se ti rifiuti vieni ucciso”. Uno dei gruppi somali più forti, Al Shabab (I giovani) arruola ragazzi tra i 10 e i 15 anni. “Sono bambini cresciuti in mezzo alla guerra, che non hanno mai avuto la possibilità di studiare, gli danno in mano un fucile e li crescono con le loro idee”.
Quindi, aiutato da sua mamma, lascia la Somalia. “Non è facile, ma se hai i soldi ce la fai”. La prima tappa è il Kenya dove vive da suo zio, lavora per qualche tempo ma: “Dopo un po’ ho detto basta, sono tornato in Somalia, ma c’era ancora la guerra. Così ho preso l’aereo per la Siria, ma arrivato a Dubai, mi hanno rimandato indietro”. Riparte, questa volta insieme al fratello: “Yemen, Arabia Saudita, Giordania, Siria e il confine con la Turchia”. Ma lì si ferma, il confine è sorvegliato. “Era notte e sono arrivati i soldati. Io ero piccolo e stanco, non ce la facevo a scappare. mio fratello non voleva abbandonarmi, ma sapevo che ci avrebbero rimandato in Somalia, e quindi l’ho obbligato a fuggire. Ci è riuscito, è entrato in Turchia e adesso vive in Svezia. Ancora oggi mi ringrazia per averlo convinto”.
Abdi invece viene preso e incarcerato in Siria, dove rimane un mese. “Dicevano che se non avessi pagato il biglietto aereo per la Somalia, sarei rimasto in carcere per sempre. Così mi sono fatto mandare i soldi e sono tornato”. Riparte subito, cambiando rotta: “Sono andato in Tunisia, dove abitava mio fratello. Questa volta ci ho messo poco, avevo dei documenti, quindi in tre giorni sono arrivato. Lui mi ha organizzato il viaggio, comprandomi il biglietto di una nave da turismo, che mi ha portato a Genova”.
E’ l’inizio del 2007 e Abdi ha 16 anni. viene fermato dalla polizia e portato in una comunità per minori. “Non volevo restarci, la mia idea era quella di farmi dare i documenti e andare in Inghilterra, dove abitava mia sorella”. Per farlo si finge maggiorenne e, ottenuti i documenti, raggiunge Calais in Francia e da lì l’Inghilterra. “Sono rimasto 8 mesi, poi ho fatto la richiesta di asilo politico. Ma ho scoperto di non poterci rimanere, perché avendomi preso le impronte in Italia dovevo ritornarci, anche contro la mia volontà”.
Il ritorno in Italia non è facile, vive per un po’ a Firenze, si sposta a Lucca per lavorare in un cantiere navale e nel 2009 arriva a Bologna. “Qua ho trovato posto in un dormitorio e svolto qualche lavoretto, fino a che non ho conosciuto l’Associazione Piazza Grande che mi ha trovato lavoro”. Adesso ha una casa dove può ospitare sua mamma, che l’ha raggiunto 5 mesi fa grazie al ricongiungimento familiare, ed è finalmente tranquillo.
“Non ho più problemi, lavoro al dormitorio Rostom e faccio il mediatore con i rifugiati che arrivano a Bologna. Li aiuto nel loro percorso, conosco la strada che hanno fatto per arrivare fin qui, quello che hanno passato e di cosa hanno bisogno. Provo anche a fargli capire che non si devono accontentare degli aiuti che ricevono, non sono infiniti, e quindi li sprono a studiare, a imparare e darsi da fare per diventare autonomi”.
“La Somalia è sempre stato un Paese tranquillo, c’erano scuole e ospedali gratuiti, si viveva bene. Poi è iniziata la guerra ed è crollato tutto – conclude Abdi -. Se davvero si volesse porre fine alle violenze, basterebbe non vendere più le armi. I somali non hanno fabbriche proprie, tutte le armi provengono da Paesi esterni, che probabilmente hanno un qualche interesse affinché tutto questo continui, supportando i gruppi coinvolti”.
Questo articolo è stato pubblicato da Piazza grande il 18 maggio 2016