La Liberazione vista da una ragazza di 14 anni

25 Aprile 2016 /

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di Aurora Sapigni
Ormai dobbiamo essere rimasti in pochi che in quel lontano 21 aprile 1945 erano in Piazza Maggiore a Bologna per festeggiare la Liberazione. Io c’ero, avevo 14 anni. Sono una signora di 85 anni: potrei fare l’uncinetto, guardare la televisione, invece no, la mia testa gira alla rovescia e mi riporta a giorni tanto lontani nel tempo, al 21 aprile di 71 anni fa, giorno della Liberazione di Bologna.
Il fronte da 7 mesi era fermo sugli Appenini, a Bologna si sopravviveva a stento tra bombardamenti e rastrellamenti. Chi aveva denari da spendere per mangiare ricorreva al mercato nero, tanti erano andati a vivere nei rifugi ed erano organizzatissimi. Ricordo che al rifugio del Meloncello un calzolaio aveva impiantato il suo banco di lavoro per riparare le scarpe.
Chi era sfollato e aveva salvato la casa a Bologna tornava in città, magari in coabitazione, bisognava arrangiarsi. Nemmeno in campagna si viveva bene, tanti contadini furono costretti a venire in città con le loro mucche, anche nel nostro cortilino nel Pratello avevamo due mucche ospiti, devo dire che mi sono sfamata grazie al loro latte. Mia madre se riusciva a rimediare un po’ di riso lo cuoceva nel latte che aveva una bella panna ed era buono.

Qualcosa bisognava pur mettere sotto i denti: i fornai si erano messi a cuocere degli spicchi di zucca, e patate lesse o cotte sotto la cenere erano una vera specialità. Il pane era tesserato, come tutto del resto, era nero e pesante, un panino pesava due etti e doveva bastarti per tutto il giorno. In attesa degli alleati chi aveva un po’ di farina (al mercato nero si trovava, la pagavi un po’ come oro colato…) aveva preparato delle galette, mia madre denari non ne aveva, si viveva così alla giornata, sperando nel buon Dio.
Mi si stringe ancora il cuore solo a ricordarlo, un giorno apparvero in città dei manifesti in cui si invitava la popolazione a denunciare i partigiani, che allora venivano chiamati “ribelli” dai repubblichini. Il premio per questa azione erano due chili di sale. Non faccio commenti, ma è tutto vero. La vita era attaccata a un filo. La fede era l’unica nostra forza: nel Pratello c’è un Cristo a grandezza naturale dipinto nel muro, così prendemmo l’abitudine di trovarci nel tardo pomeriggio a recitare il rosario, per chiedere la grazia di salvare la pelle.
Il 21 aprile 1945 avevo 14 anni, abitavo in un granaino in cui ci stava solo un letto singolo, io ero giovane, dormivo bene ovunque. Mia madre, che faticava a respirare, passava le notti bivaccando per le scale e se non era troppo freddo andava nell’antana sopra i tetti. La mattina del 21 aprile sentii mia madre che parlava con qualcuno per le scale che diceva: “A porta Mazzini ci sono i Polacchi, la guerra è finita!”
Mia madre si mise le scarpe e mi disse: “Vado a prendere il caffè con gli alleati”, e se ne andò. Dopo un po’ tornò, andammo in Piazza, c’era tanta gente. Riuscimmo ad arrivare sui gradini di San Petronio, posizione privilegiata che domina tutta la piazza. Arrivavano camionette di partigiani, le ragazze vi salivano per condividere la gioia della Liberazione. Era tutto uno sventolio di bandiere, gente che inneggiava, jeep di militari, giovani col fazzoletto al collo e tanta gioventù che pareva sparita da Bologna e invece grazie a Dio era ritornata. Era pericoloso per un giovane girare per Bologna, perché erano tutti reclutati, avrebbero dovuti unirsi ai repubblichini contro la loro volontà.
Non so perché, sono fatta così, dovrei essere felice a ricordare quella Piazza in festa, ma non posso dimenticare la faccia dell’Elena, una signora che abitava nel mio stesso palazzo, aveva perso una figlia di 18 anni sotto i bombardamenti. Si chiamava Gabriella, era una mia amica.
Una figura caratteristica del Pratello era la Titona, tutti la chiamavano così per il suo seno prosperoso, anche lei colpita in quanto aveva di più caro, le avevano trucidato due figli. Mi pare ancora di vederli, sotto i portici, in giacchetta, davanti al Bar “Da Romolo”(che adesso è il Barazzo) a fumarsi una sigaretta, la bella testa di capelli ricci. Anche se per cause diverse, nel raggio di 50 metri due mamme piangevano i loro figli, l’Elena abitava nel Pratello al numero 43 e la Titona al numero 60, per loro la guerra non sarebbe finita mai.
Questo articolo è stato pubblicato da Piazza grande il 21 aprile 2016

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