Trivelle, ecco come Mattei sbloccava i cantieri

22 Aprile 2016 /

Condividi su

Enrico Mattei
Enrico Mattei
di Giorgio Boatti
Chissà se qualcuno si ricorda ancora del ‘metodo Mattei’. Conviene non dimenticarsene, tanto per dare maggiore prospettiva storica alla vicenda di Tempa Rossa che sta agitando la politica italiana. Il ‘metodo Mattei’ viene sperimentato, sin dal primo Dopoguerra, proprio sulla questione della costruzione delle infrastrutture di trasporto dell’energia.
Il caso Agip
Tutto parte dal fatto che le fonti energetiche, con pochissime e virtuose eccezioni, hanno la pessima abitudine di non trovarsi – quasi mai – nel posto giusto. Da qui la complicata faccenda di doverle portare a destinazione. Per Mattei la questione si pone quando, invece di sciogliere l’Agip che gli è stata affidata dopo la Liberazione, non solo disobbedisce agli ordini di Roma e ai desiderata degli anglo-americani, ma la potenzia. È fortunato e inciampa in importanti giacimenti di metano nella Pianura padana.
Il gas naturale, come fonte energetica, è allora poco utilizzato e Mattei, convinto che l’approvvigionamento energetico stia alla base dell’autonomia di una nazione, apre la strada alla metanizzazione dell’Italia, con 30 anni di anticipo rispetto al resto dell’Europa Occidentale.

La campagna nel terzo mondo
Pochi anni dopo, fondata l’Eni nel 1953, la metanizzazione si affianca alla spregiudicata ed efficace politica petrolifera condotta da Mattei nel Terzo Mondo, dove è in corso la decolonizzazione. Probabilmente le ostilità delle ‘sette sorelle’ che dominano il mercato petrolifero e i sussulti geostrategici di scacchieri quali il Medio Oriente e l’Africa, l’Iran e l’Urss, a Mattei sembrano poca cosa dopo gli ostacoli affrontati in patria, quando ha iniziato a stendere i primi gasdotti (attualmente si snodano per 30 mila chilometri) lungo la Penisola.
Dopo i primi tentativi, il pur potente presidente dell’Eni capisce che rischia di dover attendere anni, forse decenni, prima di poter procedere: un’immane burocrazia blocca le opere, chilometro dopo chilometro.
Dagli interessi del Paese a quelli di cordata: mutazioni dell’Eni
Il ‘metodo Mattei’ – lo racconta Giuseppe Accorinti, assunto in Eni direttamente da Mattei, nel libro Quando Mattei era l’impresa energetica. Io c’ero, (Hacca edizioni, 2008) – nasce in quegli anni. Funziona così: quando in una località la burocrazia blocca i lavori, tecnici, operai e mezzi del Cane a sei zampe si posizionano, nottetempo, fuori dal paese.
L’invasione degli scavatori
A questo punto arriva una scena da Amici miei, perché, in Italia, la realtà supera sempre la narrazione, persino quelle del grande schermo. A un cenno di Mattei – che ci tiene ad essere presente alle operazioni – si accendono i riflettori. Ruspe, scavatrici, camion avanzano. Un frastuono assordante. Gli abitanti, svegliati all’improvviso, aprono le finestre e vedono le squadre che scavano, allargano, procedono.
Il sindaco della località ‘invasa’, a questo punto, esce dal letto, si riveste e, in ciabatte, arriva ad affrontare gli invasori. Intima di interrompere i lavori, chiede autorizzazioni e vidimazioni: Mattei lo fronteggia. Spiega il motivo dei lavori, sottolinea urgenze e necessità. Poi, però, quasi colto dal dubbio, tace. Sembra quasi pentito, vicino a ordinare il dietrofront alle sue squadre.
L’arte della persuasione
Al sindaco che lo fronteggia non pare vero, per un attimo, di aver sconfitto il potente Mattei. Poi gli viene un dubbio. Si ritirano? E la strada, chi la sistema? E la voragine, chi la chiude? Mattei si stringe nelle spalle. Borbotta qualcosa a proposito di permessi necessari, trafile burocratiche. Certo, se gli lasciano posare le maledette condotte del metanodotto, questione di poche ore, tutto verrà sistemato.
Avrete già capito come finisce la storia. Il sindaco, maledicendo metano e Mattei, intima di riprendere all’istante i lavori e di non interromperli fino al più totale compimento. Il ‘metodo Mattei’ tagliava lungaggini e andava dritto alla meta. Così, dopo la metanizzazione, viene adottato anche per gli oleodotti. Ad esempio quello che parte da Genova e raggiunge Ingolstadt, sulle rive del Danubio, in Baviera.
Un lungo percorso che fora le Alpi all’altezza dello Spluga, attraversando – senza produrre rischi ambientali – quel lago di Costanza al quale la Svizzera attinge acqua potabile.
La mutazione genetica dell’Eni
Altri tempi, ovviamente. Perché poi, scomparso Mattei e cambiata l’Italia, l’Eni muta a poco a poco pelle: diventa la quinta major petrolifera del mondo e, al tempo stesso, una sorta di Stato parallelo dentro la nostra Repubblica.
E questa è la storia, ancorata all’ultimo quarto di secolo, che Andrea Greco e Giuseppe Oddo raccontano ne Lo Stato parallelo. La prima inchiesta sull’Eni, (Chiarelettere editore, 2016): un saggio documentatissimo che fa onore al giornalismo economico e investigativo italiano. Una ricostruzione densa di primattori e comprimari, di galantuomini (pochi) e gaglioffi (quanto basta, comunque sempre troppi), di eventi politici presto dimenticati e inciamponi giudiziari smarriti nelle cronache.
Il cane al guinzaglio
L’elemento irrinunciabile del lavoro di Greco e di Oddo sta nell’attenzione che dedicano al come: ovvero alle modalità e, appunto, ai metodi utilizzati dalle diverse leadership che si succedono alla guida dell’Eni. A volte difendono efficacemente gli interessi energetici del Paese in un mondo che sta cambiando. Più spesso, invece, cercano di mettere il Cane a sei zampe al guinzaglio delle cordate che, attorno allo snodo centrale delle fonti energetiche, combattono quella guerra per comandare (sugli altri) e arricchire (se stessi) che, non solo in Italia, dura da sempre.
Questo articolo è stato pubblicato da Lettera43.it il 10 aprile 2016

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati