Bologna, Radio Alice ha compiuto 40 anni: il ricordo di Bifo

15 Febbraio 2016 /

Condividi su

di Francesca Buonfiglioli
L’inno americano storpiato dalla chitarra elettrica di Jimi Hendrix. È stato questo il vagito di Radio Alice, nata 40 anni fa in una mansarda al civico 41 di via del Pratello, Bologna, dall’idea di un gruppo di amici e studenti soprattutto del Dams. Figlia legittima della voglia di sperimentazione, creatività, provocazione e libertà che si respirava in quegli anni sotto i portici, nelle università, e non solo.
Il poeta e l’ingegnere
Ma soprattutto un’esperienza che rappresentava «la prima convergenza tra lavoro tecnico e lavoro creativo», racconta a Lettera43.it Franco Bifo Berardi, uno dei fondatori. «L’alleanza», continua sorridendo, «tra il poeta e l’ingegnere».
«Quando Maurizio Torrealta venne a casa mia a propormi di fondare una radio», ricorda Bifo, «la trovai una idea bellissima. Pensai: ‘Sappiamo cantare, fare gli speaker, ballare…praticamente possiamo fare tutto’. Ma la macchina?».
Così chi aveva le competenze tecniche, come Torrealta o Andrea Zanobetti, ingegnere elettronico, divenne un «eroe». Radio Alice, insomma, era il frutto «di poeti, artisti pazzoidi e di hacker antelitteram, sperimentatori tecnici». Un’alleanza feconda da cui germogliarono la new wave e le sperimentazioni successive.

Alla ricerca della felicità collettiva
L’obiettivo non era fare informazione tradizionale. «Non era la nostra vocazione», spiega Bifo, «e non avevamo nemmeno le competenze necessarie». Il loro era più «un esperimento tecnico sociale», reso possibile anche grazie alla partecipazione degli ascoltatori che, per la prima volta, telefonando potevano intervenire in diretta.
«L’obiettivo», precisa Bifo, «era fare della radio un luogo piacevole. Radio Alice affermava la possibilità di una felicità collettiva. Un obiettivo che è ancora alla nostra portata ma purtroppo non siamo capaci di vederlo…».
Che Italia era quella a cavallo tra il 1976 e il 1977?
Dal punto di vista sociale, la disoccupazione viaggiava sul 13,5% ed era soprattutto giovanile. La pressione sociale era forte ma…
Ma?
Ma allora essere senza lavoro non era così drammatico e ansiogeno come adesso.
Perché?
Esisteva una rete di sopravvivenza sociale di solidarietà molto forte. In altre parole, il lavoro non era bisogno di identità ma di reddito.
C’è chi dipinge il 77 come esplosione di rabbia e disperazione…
Non lo fu, non totalmente. C’erano delle difficoltà ma si cercavano nuove possibilità. Si sperimentava una nuova creatività. Termine che poi negli anni è stato strumentalizzato.
Creatività al potere?
Il 77 non era solo tensione. Ma anche solidarietà e allegria. Mentre oggi si respira angoscia, allora si sorrideva per strada anche se si era parecchio incazzati.
Erano anche gli anni del governo di unità nazionale.
Il governo era espressione delle maggiori forze politiche. Pci e Dc avevano trovato un accordo. Per questo ogni richiesta della società e ogni tensione si scontravano contro un muro violento. Solo nel 1976 si contarono 183 morti ammazzati a causa della legge Reale, voluta da comunisti e democristiani, che consentiva alle forze dell’ordine l’uso legittimo delle armi.
Per contrastare il terrorismo…
Ma il terrorismo e le Brigate rosse diventarono più forti dopo il 1977.
E poi a Bologna, in via Mascarella, fu ucciso Francesco Lorusso. A cui seguì la chiusura di Radio Alice…
Ci furono quattro giorni di esplosione cittadina. La polizia ci ritenne responsabili. In effetti noi davamo voce alla piazza. A quel punto la magistratura, le forze dell’ordine e Francesco Cossiga allora ministro dell’Interno ci fecero chiudere. Riaprimmo la radio il giorno dopo, e ci richiusero. E il giorno dopo lo stesso.
Alla fine avete chiuso per sempre.
Solo nella redazione ci furono 16 arresti. Gli altri scapparono. L’esperienza venne rilanciata dopo qualche mese grazie a intellettuali demoicratici di Bologna, ma era un’altra cosa…
Com’era la Bologna del 77?
La città viveva una situazione particolare, il Pci era al potere. Non voglio dire che fosse una forza repressiva ma aveva accolto l’eredità culturale del centralismo, dello statalismo e dello stalinismo.
Contemporaneamente stavano emergendo nuovi movimenti…
Movimenti che assomigliavano solo in parte a quello del 68. Quella del 77 era una generazione che ascoltava musica Usa, leggeva fantascienza, si nutriva di futurismo e dadaismo.
Meno ideologica di quella del ’68?
Non accettavamo più il predominio ideologico del 900, del comunismo autoritario. Eravamo una generazione più sperimentatrice, con un proletariato giovanile.
Cioè?
Un proletariato composto da nuovi lavoratori ad alta scolarizzazione con un interesse particolare per la tecnologia.
E in questo contesto nasce Radio Alice…
Radio Alice nasce da poeti, artisti pazzoidi e alcuni hacker sperimentatori tecnici. La competenza tecnica ci faceva intravvedere la possibilità di un’alleanza tra la follia artistica del dadaismo, del futurismo e la potenza della tecnologia. Anche se mi rendo conto che oggi parlare di tecnologia riferita a una radio possa fare sorridere.
Eppure molti definiscono il 77 bolognese come dell’ultima insurrezione comunista.
Io la preferisco vedere come la prima esperienza di collaborazione tra poeti e ingegneri. Sarebbe bello riprendere quel filone.
Quali erano i punti di riferimento?
La nostra ispirazione era solo in parte la Rivoluzione sovietica. Vero, leggevamo Lenin e Majakovskij, ma la prima ispirazione veniva dal futuro. Dall’ascolto di David Bowie e dalla lettura di Burroughs. La nostra era la ricerca di una via tecnologica alla liberazione.
Purtroppo quella ricerca è durata poco.
Purtroppo sì e no.
In che senso?
La nostra anima era dadaista, tra l’altro ricorrono i 100 anni del Cabaret Voltaire. Il dadaismo esprime la necessità di abolire l’arte e la vita quotidiana per fare della vita quotidiana un’opera d’arte. Ecco: noi volevamo fare della radio uno strumento che abbatteva il muro tra arte piacere dei sensi ed esistenza sociale.
Suona un po’ utopistico, no?
Forse. L’obiettivo della radio era fare della vita un luogo piacevole. Un obiettivo che è ancora alla nostra portata, solo che non siamo capaci di vederlo. Radio Alice affermava la possibilità della felicità collettiva.
Che fine ha fatto quel dadaismo?
Il mondo cambiò con il 1977. Si perse quell’atmosfera. Poco dopo ci fu il sequestro Moro, e poi il terrorismo feroce di Stato e dei fascisti. Pure fuori dall’Italia cominciò a diffondersi quel veleno che possiamo definire neoliberismo secondo il quale veniamo al mondo per soffrire, competere, accumulare ricchezze e per fare la guerra. Basta ricordare che in quei mesi Margaret Thatcher conquistava il congresso Tory.
E addio felicità collettiva…
Ricordo la differenza tra i cortei di febbraio, allegri e mascherati e quelli di ottobre che erano diventati rabbiosi, terrificati e terrificanti. Era l’era del punk, della sua anima nera, dell’autodistruzione. E dell’eroina.
Radio Alice non avrebbe avuto più ragion d’essere?
Aveva perso il suo orizzonte. Ci sentivamo costretti a fare i conti con la politica e la violenza. E fu così che la creatività cedette il passo al terrore. Ma attenzione: Radio Alice non è morta…
No?
Le esperienze di chi ci ha lavorato, degli ascoltatori, di coloro che ti fermano e ti dicono ‘Venni a trovarvi in radio’ continuano a vivere. Questa gente si è mescolata ad altra gente continuando a sperimentare, creare. Le nostre strade si sono poi incrociate, tra televisione, giornalismo e pubblicità.
A proposito di sperimentazione, Radio Alice è stata tra le prime a inaugurare la diretta con gli ascoltatori…
Fummo i primi a connettere radio e telefono per realizzare un’informazione orizzontale. Immaginavamo un proliferare di centrali radiofoniche: era l’idea della Rete. Addirittura intitolammo un numero di Attraverso, il nostro giornale, proprio «La rete e il nodo».
Molto simile a internet così come lo conosciamo.
Il modello era lo stesso. Si vede che era nell’aria. Non a caso i nostri fratelli californiani Steve Wozniak e Steve Jobs stavano in quel momento inventando il nostro futuro. E proprio nel 77 registrarono il marchio Apple.
Dare voce alla piazza però fu anche la causa della fine di quella esperienza. La censura che subiste allora può essere paragonata a quella di oggi?
Oggi il concetto di censura non funziona più.
Perché?
Da quando le tivù private e commerciali hanno preso il sopravvento e il potere economico e pubblicitario si è impossessato dell’informazione abbiamo una ipercensura.
E qual è la differenza?
La censura impedisce alla voce di esprimersi. L’ipercensura moltiplica il rumore all’infinito. La conquista dell’informazione da parte di economia e pubblicità ha trasformato il linguaggio in un rumore di fondo. Siamo sommersi da una massa di segnali che non riusciamo più a decifrare e siamo incapaci di ascoltare la voce dell’altro. Così si alza il volume. La comunicazione è diventata colonizzazione della mente.
Questo articolo è stato pubblicato su Lettera 43 il 5 febbraio 2016

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati