Addio a Mario Dondero, un uomo libero e di sinistra dentro

14 Dicembre 2015 /

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di Loris Campetti
Un uomo libero, di sinistra dentro. Difficile definirlo comunista, o anarchico, senza escludere una delle sue anime, che poi erano ben più di due. Di sinistra perché aveva un interesse appassionato per le persone – i volti, gli sguardi – e si faceva attraversare dalle loro storie. Mario Dondero ci ha lasciati alla tenera età di 87 anni, direi che è partito per l’ultimo viaggio con un sorriso ammiccante, il sorriso di un uomo buono, un fotografo straordinario che non voleva essere ricordato per le sue foto ma perché aveva voluto bene alla gente. Soprattutto agli ultimi rivolgeva il suo sguardo e il suo affetto, pur avendo incontrato e fotografato le persone più rappresentative della cultura mondiale.
Clic, un bicchiere di vino, ancora clic. Di fronte poteva avere Pier Paolo Pasolini immortalato con la mamma alle spalle o il contadino del Caucaso, il nomade saharawi o la vicina di posto in uno scompartimento del treno. L’ho conosciuto molti anni fa a un’assemblea finalizzata alla raccolta di fondi per il manifesto, a Fermo, la sua ennesima e ultima patria dopo Genova, Milano, Parigi, Roma. L’avevo già intravisto nei corridoi del giornale con il suo borsone che lo accompagnava sempre, una macchina fotografica dentro e un ricambio di biancheria.
Quella volta a Fermo rimasi colpito dal suo modo affettuoso e determinato di dare ordini: tu qui, tu là, voi in ginocchio davanti, voi in piedi sulla sedia. Avrà scattato una cinquantina di foto, gli chiesi perché, “perché siete belli e fate la cosa giusta”. Poi si perse il rullino sommerso tra tanti altri volti, storie e ricordi. Qualche anno dopo nel corridoio del manifesto me le mostrò, aveva ritrovato il rullino e sembravamo davvero belli, sicuramente facevamo ridere in quelle pose.

Mario l’ho incontrato nei luoghi e nelle situazioni più improbabili. Lungo la statale Adriatica, per esempio, di fronte alla stazione di Falconara. Mi vede, mi ferma e mi chiede: “Vai mica a Roma? Me lo dai un passaggio? Ho tutto qui nella borsa”. A Roma non aveva una casa, gli bastava telefonare a uno dei tanti amici e dirgli “sto arrivando”. Poteva fermarsi una notte come una settimana, inseguiva il suo piacere e spesso lo trovava. Amava, omaggiava e corteggiava le donne, forse i modi accattivanti li aveva imparati a Parigi negli anni Cinquanta o sulle barricate nel ’68, oppure in montagna, in Val d’Ossola con i partigiani. Si trovava sempre al posto giusto, mi raccontava con divertimento e senza un briciolo di supponenza che arrivò a Milano il giorno della sua liberazione dai nazifascisti.
Mi ha regalato tante fotografie, temo di non averne più nessuna perché tutte sono finite nell’archivio del manifesto. Spero solo che ci siano ancora, in particolare quelle delle colline fermane, morbide, di velluto. Mario era disordinato, allestire una mostra con i suoi lavori era un’impresa titanica, averlo il giorno dell’inaugurazione una fortuna. All’inaugurazione della sua ultima mostra, costruita grazie all’impegno della sua compagna Laura alle Terme di Diocleziano, sarà un anno fa, c’erano autorità e operai in pensione, giovani aspiranti fotografi, compagni d’avventura, come quelli di Fermo arrivati con un pullmino. Ogni tanto, i compagni marchigiani che si sono presi l’impegno meritorio di costruire l’archivio degli scatti di Mario, incontrano in una pila di carte e foto sulle scale di casa un’immagine della guerra d’Algeria o i volti Sartre e Simon de Beauvoir, o foto afghane scattate in un reportage al fianco di Emergency, o Laura Betti, o mille uomini e donne sconosciute e disvelate nella loro umanità da un suo scatto. Fidel Castro e Garzia Marquez, Yves Montand, Juliette Gréco, il bambino africano affamato e l’elettricista del piano di sotto, il lettore del manifesto: volti, sogni, storie. Clic.
Di Mario è stato scritto molto, di lui e del mondo in bianco e nero guardato “dall’altezza delle margherite”. “E’ impossibile fotografare la guerra a colori”, diceva spesso. L’ultima volta che l’ho incontrato era ricoverato in ospedale, era sopravvissuto a una malattia incurabile e a un’operazione devastante perché voleva continuare a vivere e a vivere a modo suo. Fino a pochi giorni dal suo ultimo viaggio rispondeva al telefono, salutava gli amici. “Nostra patria è il mondo intero/ nostra legge la libertà”: ce l’aveva cantata dopo una cena nella casa di una mia vicina di casa, dove era comparso all’improvviso, senza preannunciarsi, senza dire quanto tempo si sarebbe fermato. Ciao Mario, grande fotoreporter, grande compagno.

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