L'indignazione dell'operatore sociale: riflessioni dopo lo sgombero dell'ex Telecom

30 Ottobre 2015 /

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di Serena Panico
Sono un’operatrice sociale che da giorni si pone alcune domande circa lo sgombero dell’Ex Telecom di via Fioravanti a Bologna: ma oltre alle domande ci sono anche delle certezze, e da queste voglio partire.

  • 1. La prima certezza è che l’indignazione è una qualità fondante di un operatore sociale. Se ripenso a quando ho incontrato per la prima volta una persona che dormiva per strada, alla prima volta che ho dovuto dire a qualcuno di loro che potevo offrire solo una coperta perché i posti letto erano finiti, alla prima volta che ho incontrato un’intera famiglia senza casa, ricordo bene l’indignazione che provai.
    Con il tempo ogni operatore impara a convivere con questo sentimento. Sottolineo che si tratta di convivere, però, non lasciarsi assuefare. E non è facile. Non è facile neanche comprendere che è proprio mantenendosi in contatto con quella sana dose d’indignazione, nata dal disgusto che la disuguaglianza mostra, che si riesce ad affrontare con consapevolezza il proprio lavoro. Ed è proprio l’indignazione a motivare la fatica costante di un impegno quotidiano, che ricerca costantemente nuove soluzioni e possibilità da offrire a chi ne ha bisogno, per rendere tutti “meno disuguali”. Un proverbio italiano, poco conosciuto, dice: “Chi non ha sdegno non ha ingegno”.

  • 2. La seconda certezza è che le soluzioni immediate sono inefficaci e nel breve/medio tempo i problemi si ripresentano in condizioni ben peggiori di prima. E qui non aggiungo altro, chiunque può comprendere cosa intendo.
  • 3. La terza certezza mi è data dall’articolo 3 della Costituzione italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. […] È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Ma ora veniamo allo sgombero dell’Ex Telecom. L’indignazione che tutti noi operatori sociali abbiamo provato martedì scorso in via Fioravanti ha diverse motivazioni, alcune evidenti, altre più sotto traccia, più sfumate, ma che sono significativamente sintomatiche della situazione.

Due indignazioni di fronte allo sgombero dell’ex Telecom:

  • 1. La prima, quella più evidente e indiscutibile, è la sensazione che nasce da un’ingiustizia a cui hai assistito e a cui però non sai dare una spiegazione. Provo a descrivere il senso di confusione e di impotenza, e quindi non esaustivo di quanto accaduto, riportando alcune immagini scambiate tra colleghi:

    Le camionette della polizia e dei carabinieri sono più di 10, è difficile contarle. Davanti alla polizia un presidio fatto da poche persone: una mezz’ora prima ci sono state le cariche, sulla strada ci sono ancora i fazzoletti sporchi di sangue. Sul tetto una ventina di persone battono rumorosamente la loro resistenza che risuona in tutta la piazza Liber Paradisus.
    Sembra uno sgombero con troppe forze, se non fosse per quei bambini che gridano dalle finestre “Mai più senza casa”. Hanno tante età diverse e condividono i piani con le madri, i padri vanno sui tetti. La polizia è ancora nel cortile, dicono, non è ancora arrivata ai piani! Una maestra o forse una mamma passa di lì, vede Mohamed e lo saluta; gli dicono di stare attento, “stai attento” è quello che penso anche io, gli dicono che dopo lo verranno a salutare.
    Dopo una lunga attesa lo sgombero vero e proprio inizia e nel pomeriggio iniziano ad uscire alla spicciolata famiglie costrette ad abbandonare la propria casa, per essere accompagnate in una torre di Liber Paradisus per i colloqui. Alle 17 una famiglia resta parcheggiata nel corridoio tra l’ingresso dell’Ex Telecom e le camionette: la mamma con un lungo velo nero è di spalle rispetto al presidio, lei e suo figlio se ne stanno seduti sulle loro tante valige, per un tempo che da qui sembra lunghissimo.
    Occhi lucidi ovunque, visi tirati e sguardi bassi tra i manifestanti accorsi in segno di solidarietà, ma anche tra i poliziotti in evidente disagio nell’obbedire a quell’ordine. Ormai è buio e sono quasi tutti fuori, qualcuno batte ancora con stanchezza sul tetto, fino a quando non decidono di uscire tutti, alla radio dicono che gli è stata promessa una sistemazione per stanotte.
    I colloqui e le trattative continuano per altre ore, intanto gli autobus iniziano a portare le persone e le famiglie in un posto caldo per stanotte. A mezzanotte la lunga giornata per qualcuno non è ancora terminata: spunta ancora qualche viso esausto, da sotto le coperte di fortuna, che aspetta il suo turno.

    Chi ha passato un po’ di tempo in via Fioravanti potrebbe aggiungere altrettante immagini che forse ancora meglio raccontano questa giornata, e che sicuramente sanno anche i lettori, i radioascoltatori e i telespettatori.

  • 2. Ma la seconda motivazione dell’indignazione che ho provato, e che continuo a provare dopo una settimana, è più sottile, meno evidente e più difficile da spiegare. E riguarda i molti racconti non raccontati degli operatori del sociale che hanno dovuto “limitare i danni”, “parare i colpi”, lavorando dall’alba fino a notte: fino a quando l’ultima persona è stata accolta. “E’ il loro lavoro”, dicono in molti. Ma lo è davvero?
    No, affatto. Il nostro lavoro non dev’essere questo, non a Bologna, non in Italia, non in un Paese che si definisce “civile”. Ecco perché, anche se è già trascorsa una settimana, l’indignazione (quella con cui un operatore impara a convivere e che gli serve per operare al meglio) non è affatto passata, anzi. Aggiungo che sono orgogliosa di averla vista in questi giorni negli occhi di ogni mio collega, e confesso che questo mi crea un’euforia che mi rallegra, mi dà senso di appartenenza e mi convince sempre più che il punto di vista degli operatori del sociale non è l’unico, ma è forte e va ascoltato. Siamo parte in causa, dobbiamo esserne consapevoli e dobbiamo avere voce. La nostra voce invece sembra che venga soppressa e strozzata sul nascere, o forse neanche considerata, se è vero che poco o nulla è stato fatto nel modo giusto secondo noi.

Poco o nulla è stato fatto nel modo giusto: perché?
Ora vorrei che ognuno di noi prendesse un foglio a quadretti e una penna, e mettesse in colonna una somma, come ci insegnavano alle elementari: mettiamo il costo di un tale dispiegamento di forze dell’ordine; aggiungiamo quello di tutti coloro che hanno lavorato per più di 12 ore dando un minimo di sostegno e accoglienza alle persone che da quel giorno erano senza casa; poi ci sono le 2\3 ambulanze e il pronto soccorso; i trasporti presso le strutture; l’attivazione di alberghi e strutture in emergenza. Infine ci piacerebbe proprio aggiungere i costi che avremo per riparare al malessere psicofisico di bambini e adulti che hanno subito questa giornata, ma purtroppo questo non lo possiamo fare perché ad oggi questo numero è una X, un’incognita, e un’incognita resterà per sempre. Dunque togliamo questo costo, seppur ci sarà, tiriamo una riga e sommiamo: quanto ci è costato?
Molto, ma indipendentemente da quanto, la domanda che pongo è: cosa avremmo potuto fare con le stesse risorse? Quali risultati avremmo potuto cercare di ottenere? Non c’è un’unica risposta, ma tutte sono migliori di questa. Ecco perché a una settimana dallo sgombero mi piacerebbe che ogni cittadino, operatori e amministratori del sociale compresi, immaginasse soluzioni nuove partendo da questa situazione, reale e decisamente in crescita, in cui sempre più persone perdono la casa, o non riescono nemmeno ad ottenerla, perché senza lavoro o privi di sufficienti risorse economiche. Ora, ognuno pensi in questa situazione quale strategia adotterebbe, come potrebbe andare a finire e pensi infine a come gestirebbe le conseguenze.
Non è facile, vero? Essere creativi richiede una grossa dose di impegno, per inventare nuove strategie da mettere al vaglio con la realtà. Invece, scegliere la prima strategia, quella dello sgombero forzato, consente di avere due opzioni nell’immediato semplici e all’apparenza chiare: accettare che sempre più persone perdano la casa e che il welfare pubblico debba avere le risorse per rispondere a tutti; oppure tollerare che tutte queste persone finiscano in strada. I più convinti di questa strategia potrebbero poi anche dar vita ad un comitato antidegrado e comandare uno sgombero in stile Ex Telecom in modo da allontanare il problema dagli occhi di chi non vuol vedere. Solo che se sono già in strada e le risorse del welfare non sono sufficienti, dove li mandi? Li mandi nel Cul-de-Sac, nel vicolo cieco, nella strada senza uscita. E da qualche parte i problemi non risolti si ripresentano.
Chi invece prediligesse la seconda via non avrebbe vita semplice perché dovrebbe analizzare il problema e farsene carico per valorizzare tutte le risorse che sono a disposizione. Per esempio, una domanda che mi sono posta è questa: come hanno fatto queste famiglie ad auto-organizzarsi all’interno dell’Ex Telecom? La loro capacità di auto-organizzazione all’interno delle occupazioni non è forse, oltre a “illegalità”, anche una risorsa da considerare? Questo è solo un piccolo esempio, tra i tanti che potrebbero esserci.
Senza dubbio, scegliere questa seconda strada è più complesso e difficile. Perché significa farsi delle domande e ricercare nuove risposte. E perché, in ultima analisi, presuppone che chi deve aiutare ammetta di non avere abbastanza risorse per farlo da solo e che chi deve farsi aiutare debba essere ascoltato. Cose che, nel caso dello sgombero dell’Ex Telecom, sono mancate entrambe.
Questo articolo è stato pubblicato su Piazza Grande il 26 ottobre 2015

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